Articolo con Anna Guerrieri, pubblicato anche su Genitori si diventa >>
Entrare in classe significa entrare in un gruppo vivo e vitale, concretissimo nella sua fisicità. Ha muri che lo circoscrivono, ha finestre da cui guardare fuori, attraverso cui entra sole, pioggia, vento. Bastano le pareti di una classe, la disposizione dei banchi, la loro adeguatezza o inadeguatezza ai bambini e ai ragazzi, a determinare forti sensazioni in chi entra, sono l’orizzonte che accoglie alunni e professori, sono il palcoscenico in cui si vivrà. La classe ha storie, voci. Ha entrate e uscite, ritmi, regole e trasgressioni. Ha passioni e commozioni, drammi improvvisi e gioie. Ha fughe. Ha i suoi ragazzi, i suoi insegnanti, ha ogni persona che la scuola la abita e la vive. La storia della classe è fatta di tutte queste storie insieme. Si snoda giorno per giorno, vive del passato di ognuno, delle famiglie di ognuno, degli eventi di ogni vita, resta nel futuro degli alunni e degli studenti che crescono e ne escono. Giorno dopo giorno in classe si vive assieme. E la vive anche chi resta a casa, i genitori e i fratelli degli alunni, i famigliari degli insegnanti. In classe si gioca tanto della vita di ogni persona che la abita, attorno alla classe vivono in tanti. I ragazzi e le ragazze, i bambini e le bambine ne sono il battito, gli adulti assistono, interagiscono, sono trascinati dentro.
Il tempo che si passa a scuola va dalla prima infanzia a una lunga adolescenza, è il tempo di una vita e di una trasformazione. Vale la pena occuparsene se davvero si ritiene una cosa “seria” una scuola dove si stia bene, tutti, anche chi ha una storia poco usuale o complessa. Insegnare ad apprendere è il centro di gravità attorno a cui orbita la vita scolastica e non si può ignorare come per poter apprendere si debba poter “essere”, essere ascoltati per poter ascoltare, essere valorizzati per poter dare valore, essere scoperti se si vuole insegnare a scoprire. In classe gli alunni rispondono a domande su di sé, sulle proprie storie, ogni istante. Danno ai compagni e agli insegnanti parti importanti della propria vita, del proprio passato e del proprio presente. Insegnano. Questo è il motivo per cui il tema della comunicazione reciproca è così rilevante, per non ricondurre il benessere della vita a scuola solo alla ripetizione di progetti sempre uguali, troppo uniformati e uniformanti nonostante la loro apparente innovatività, privilegiando la “soluzione” semplice rispetto alla necessità continua di creare una dimensione di scambio non basato sul prevalere di alcuni (le storie positive e di successo) sugli altri (le storie più complesse o critiche). Ogni progetto (dedicato alla narrazione, alla storia personale, alla risoluzione dei conflitti, all’educazione affettiva, alla gestione dei social media, ecc.) avrà senso solo se attuato all’interno di un clima in cui alunni e insegnanti (e quindi anche insegnanti e genitori, figli e genitori) possano parlarsi e ascoltarsi per davvero.
Lavorare con i piccoli gruppi permette di osservare quanto ognuno dei partecipanti si adatti alle esuberanze e le necessità di pochi membri, e viva il gruppo facendosi rappresentare. Nella quasi totalità dei casi le risorse migliori, se non sollecitate, rimangono silenti, rispettando i tempi ed i modi di esprimersi che, chi si propone come leader, stabilisce. Accettare questi silenzi senza intervenire è una perdita importante, è lì che sfuggono le vite di troppi bambini e ragazzi, quelli che sembrano sempre sullo sfondo, evitando di buttarsi in avanti, di esporsi, di rischiare. Perché la classe possa godere della ricchezza della loro esperienza diventa fondamentale integrare queste molteplicità, andando a stimolare chi è in grado di attivarsi e partecipare, mettendoli nelle condizioni di poter parlare di sé, raccontare qualcosa di originale, manifestare, insomma, interesse verso chi solitamente rimane in ascolto. Affinché diventino risorsa l’uno per l’altro è necessario far si che chi si espone sia in contatto con chi si ritrae, affinché le dinamiche di potere non si cristallizzino condannando chi è leader ad essere sempre “davanti” e chi evita sempre “dietro”; in ultima analisi evitando schivamenti e prevaricazioni, evitando il rifiuto di chi viene percepito altro e distante, fuori dal cerchio.
Chi vive nella differenza non sa quanto sarà accolto, né come. Dovrà scoprire il mondo in cui entra e percepire la possibilità di starci. Dovrà testate se la propria differenza (somatica, per storia famigliare, per scelta sessuale, di vita, cognitiva, fisica) sia accettabile o meno, e quanto, sino a che punto accettabile. Scoprire se “davvero” in classe si possa parlare (essere in ultima analisi) fa una differenza enorme, permette di immaginare di poter raccontare qualcosa sapendo che per gli altri “va bene così”, senza dover prevalere o travestirsi da vincente. Non basta un film proiettato in classe, né un libro, né un intero progetto a garantire che si dia spazio vero a chi ha bisogno di sentirsi accettato perché di fatto impossibile insegnare ad altri ciò che non si sperimenta o avvicina almeno un poco. Avere in classe, ad esempio, alunni con storie di adozione, di affido, con storie famigliari segmentate e non basate sulla somiglianza e l’appartenenza fisica, fatte spesso di “non sapere” cosa ci sia nel passato, mette in contatto con quello che si prova sulla perdita, sull’abbandono, sulla capacità di essere genitori e sull’appartenenza.
Provare “vergogna” ad esporsi, impossibilitati nel trovare la propria voce, quella reale, questa è la sensazione narrata a volte da ragazzi e ragazze che si sentono troppo differenti dagli “altri”. Se si pensa a ad un bambino o ragazzo adottato internazionalmente che ha cambiato bruscamente vita, contesto di accudimento, lingua si percepisce come possa (almeno talvolta) sentirsi sovraesposto, la competenza acquisita nel passato può non essere più utilizzabile nel suo presente, anzi può diventare inadeguata. I comportamenti appaiono poco comprensibili agli adulti che lo circondano, sfuggono alle categorie, alle sigle e alle diagnosi proprio perché azioni e reazioni possono essere innescate e determinate da ciò che si è imparato in un prima di cui nessuno è testimone. E’ proprio il non “capirsi” (come anche quando non si comprende la fatica di chi pensa e apprende in modo differente) che può innescare una ghirlanda di problematicità. Eppure le differenze si potrebbero facilmente trasformare in risorsa proprio perché, mettendo in evidenza un limite e amplificando le incongruenze fra quanto si dichiara e quanto si vive realmente, innescano cambiamenti. In questi contesti diventa un rischio non soffermarsi, non cogliere la complessità delle relazioni umane, riferire il senso delle cose che stanno intorno a se stessi e ai propri bisogni (insegnanti, genitori), pensando di aver ragione, non sapendo mediare, solo alla ricerca di conferme personali. E’ allora, ad esempio, che il sistema entra in scena e prende lo spazio che spetterebbe alle persone. Restano a quel punto solo le sigle e le diagnosi, richieste dalla scuola, temute-inseguite dalle famiglie, percepite in ultima analisi come “difese” per gli adulti, piuttosto che come utili alle persone che ne sono protagoniste.
Spesso si è privi di alfabetizzazione per quanto riguarda la capacità di relazionarsi con l’altro riuscendo veramente a conoscerlo, sapendosi nutrire delle fragilità e vitalità che sono contenute in una relazione. La relazione è un fluttuare continuo, può vivere intensamente attraverso le parole e attraverso i silenzi, anche solo un cenno, un movimento rapido di un sopracciglio può avere un significato profondo se c’è una relazione. Ciò che percepiamo è la realtà, ovvero noi viviamo esclusivamente delle nostre percezioni. A volte sono inquinate dai ricordi del passato dalla percezione di noi stessi, da cosa attribuiamo a chi ci sta intorno indipendentemente da chi è veramente. Le abitudini diventano fondamentali, i ruoli formali ed informali strutturano più rigidamente di quanto riusciamo ad immaginare la realtà che ci circonda, siamo sempre alla ricerca di rassicurazioni, la nostra mente apparentemente flessibile e capace di nuovi adattamenti combatte, più di quanto crediamo, contro ciò che può rappresentare un cambiamento anche positivo. Si giocano ruoli di potere nei gruppi (ed anche nelle classi) che mettono in evidenza la caparbietà assurda perdurare nel non cambiamento, nella non evoluzione.
La scuola è un luogo ove si concentrano una molteplicità di situazioni, tanti ruoli che interagiscono, programmi da portare avanti, verifiche, interrogazioni. Gli strumenti pensati per trasferire sapere, cultura, capacità di pensiero critico, quindi per il bene degli alunni possono trasformarsi anche senza accorgersene in strumenti che perdono il loro senso originario, fini a sé stessi, autoreferenziali, utili all’istituzione e non alla persona e quindi danneggiati e possibilmente danneggianti. Basta pensare a quando il sistema della valutazione possa apparire talvolta troppo determinato da necessità estranee alle persone (“devo fare così perché il registro elettronico me lo impone”), quando non è più funzionale alla crescita della consapevolezza, quando non insegna più, non parla. E’ allora che perde il suo valore così grande, è allora che perde equità umana ed è allora, che nonostante le migliori intenzioni, può urtare e scheggiare, può costringere alla ritirata, a nascondersi, a sparire e rinunciare. Un Piano Didattico Personalizzato pensato con le migliori intenzioni può trasformarsi, fin troppo facilmente, da strumento essenziale ed utile in terreno di guerra e combattimento e non più strumento al servizio dei bambini e dei ragazzi con differente modo di apprendere.
Agli studenti spesso manca il contatto e la sensazione dell’umanità, come agli insegnanti manca la sensazione del confronto, del dialogo ed in ultima analisi del rispetto. Lavorare sulla restituzione dell’umanità significa cercare di restituire ad ogni abitante della classe la percezione che ciò che in essa accade ha un profondo valore prima di tutto per sé stessi. Intervenire diventa come versare da bere ad una persona terribilmente assetata che ha come unico contenitore un bicchiere senza fondo, l’unica cosa è far in modo che usi le sue mani per raccogliere l’acqua e così riprenda contatto con tutto ciò gli viene proposto. Deve essere un contatto reale e concreto con il rispetto, con il proprio valore. La scuola si occupa dell’istruzione di tanti e tanti esseri umani contemporaneamente tutti con diverse storie personali, famigliari, etnia e quanto altro e deve essere supportata con concreta energia. Ogni progetto, valido che possa agire sulla comunicazione del gruppo classe, la condivisione di valori vanno favoriti, facilitati in un processo che non vada dall’esterno all’interno, ma che sia co-costruito a partire da una conoscenza. Chi entra nella scuola per dare il proprio contributo deve conoscerne le regole, essere di supporto alle figure che già vi lavorano. Non si tratta di aspetti accessori, bensì fondamentali pena situazioni di disagio alcune volte eclatanti, altre silenziose e pericolosamente troppo discrete. Umanizzare tutto ciò che è ulteriormente umanizzabile ed anche francamente contenere le dinamiche di protagonismo che finiscono per soffocare menti delicate e desiderose di sentirsi accolte, è necessario e deve venire assieme – forse prima – ad ogni ideazione progettuale sempre utile (apprendimento cooperativo, metodo autobiografico, ecc.).
Ogni dinamica di potere trae le sue origini proprio dalle disattenzioni, dal potersi permettere di non sollecitare e tenere dentro risorse umane importanti. Se parliamo di ragazzi nessuno si osserva intorno per capire le regole del funzionamento delle relazioni umane più di una persona nel periodo della sua crescita. Per i ragazzi le relazioni umane sono il centro di gravità permanente; sono le relazioni famigliari, con gli insegnanti, con i compagni e gli amici, con il quartiere che contano in modo totale. Sono le relazioni che rendono le canzoni interessanti, o le serie televisive, o le storie Instagram. I ragazzi cercano conferma dai genitori, anche trasgredendo, per capire quanto è importante ciò che dicono e credono realmente. Se colgono incoerenza e noncuranza, incapacità di immedesimarsi nell’altro cosa potranno proporre nelle loro relazioni? Se gli adulti hanno un atteggiamento di noncuranza e falsità cosa possono fare da soli i ragazzi e cosa possono fare anche i professori più dedicati? Portare più “civiltà” nelle nostre classi partendo da una azione di condivisione e partecipazione da parte delle figure adulte è la strada che accompagna necessariamente ogni investimento sulla scuola partendo dal voler conoscere chi si ha davanti, dal voler diventare consapevoli, dal credere sempre di potersi ascoltare.
Strumenti utili:
Le Linee di indirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati
Le Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e delle alunne fuori della famiglia di origine
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