Francesco Marchianò

Psicologo, psicoterapeuta

Alla ricerca delle proprie origini: il ruolo di chi ascolta

Non è facile provare a immedesimarsi in una ragazza o un ragazzo adottati che cercano di entrare in contatto con la propria famiglia di origine. Bisogna essere sinceri e ammettere che si può anche restare stupiti di non provare solo (o affatto) piacevoli sensazioni. Di fatto impone di decodificare una moltitudine di informazioni contrastanti. E’ impegnativo, forse impossibile e se poi accantoniamo il pensiero dell’immedesimazione e pensiamo solo allo stare accanto a qualcuno che ci conduce in una vita che lui stesso non conosce, che cerca un ritorno al senso e al significato del proprio nascere ed essere, ci rendiamo conto di quanto sia complesso. Ci porta, effettivamente, dove lui stesso non sa esattamente come stare, non sa spesso cosa trovare. Si tratta di non poter prevedere cosa si scoprirà e come si reagirà. Ascoltare, se non si è adottati in prima persona, il racconto di un ritorno concreto o di viaggio interiore, richiede saper sospendere sé stessi lasciandosi portare altrove, un altrove dove chi racconta ha vissuto un’assenza di controllo.

Chi è alla ricerca di queste proprie origini, quelle da cui si è stati separati (in particolar modo quando non se ne ha ricordo) ha bisogno di essere capito, compreso, incluso nella vita di chi ha il privilegio di essere stato scelto come ascoltatore, ma soprattutto ha bisogno che chi gli sta vicino si faccia includere. Deve essere uno scambio equo, un ascolto onestamente reciproco che non metta una distanza invalicabile.

Per dare un senso al divenire

Quando, a partire da una storia di adozione, si parla delle proprie origini ci si avvicina, con la mente, con il pieno delle emozioni, inevitabilmente anche all’abbandono e alla perdita, alla realtà che li ha causati. Si può ritornare a sentire, come quando si era bambini, di avere qualcosa che non va. Il ruolo di chi sta accanto, di chi ascolta allora, particolarmente se è un genitore adottivo, può dover diventare attivo perché deve contrastare questo pensiero. Deve far toccare con mano che ciò che è avvenuto, non è stato a causa di una carenza di chi è stato lasciato. Quando nasciamo non abbiamo alcun potere sulla nostra nascita, la subiamo, e per tutta la vita siamo vincolati a quel momento, vivi perché nati. Per questo la nascita ha (e deve avere nella narrazione di sé stessi) un grande significato ed essere collegata a tutto ciò che succede dopo. Per dare il senso al divenire della nostra vita, abbiamo la necessità di condividere, di guardare nella stessa direzione in cui guarda qualcun altro e abbiamo bisogno di farlo dall’inizio, quando noi c’eravamo ma non sapevamo come testimoniare il nostro esserci. Abbiamo bisogno di chi ci racconti, di testimoni. L’inizio, di fatto, lo narrano altri per noi, che c’erano e sapevano. E’ la storia della nostra storia, quella che ci piace (o dispiace) ascoltare, quella che ci dà il motivo, che ci inserisce in un quadro generale che riusciamo a comprendere. Dove non siamo soli, unici. Siamo tutti alla ricerca di una rassicurazione, di sapere che qualcuno ci vuole, che non siamo sbagliati. E così, come per la nostra nascita, dipendiamo da chi ci nutre e permette di non morire, e da chi può raccontare di averci fatto nascere, nutrito e protetto. Quando si è bambini qualcuno decide, ha il potere assoluto. Il senso della vita dei bambini lo dà prima di tutto chi decide di farli nascere ed è insito nell’essere umano poi esplorare, sapere, capire i perché di alcune scelte che riguardano sé stessi, soprattutto quelle scelte che noi non abbiamo preso.

INTERPRETANDO LA PROPRIA VITA

Niente, nell’interpretare la propria vita, è mai semplice e può ridursi all’essenza, solo alle sensazioni provate in ciò che accade nell’attualità. Le sensazioni del presente stesso, tra l’altro, sono frutto di vissuti che si sovrappongono fra il qui e ora ed esperienze del passato, un insieme di pensieri che scaturiscono da vissuti diretti ed indiretti, ricordi personali e raccontati da chi può avere memoria. Contattare le persone, che sanno cose importanti del passato della propria vita, è a volte un bisogno impellente nel tentativo di portare, quanto si percepisce di sé, a fluire in un unico percorso. Per quanto forse sia illusorio e poco conciliabile con la realtà, il tentativo è vitale perché la mente si concentra sulla decodifica di elementi che non possono contribuire alla piena conoscenza se non vengono intrecciate con altre informazioni.

Abbandonare un bambino è innaturale, il senso di colpa che si innesca nella figura accudente, quando non riesce, pur magari mettendocela anche tutta, a proteggere i propri piccoli è inevitabile. Chi è stato adottato pertanto si trova a dover gestire una contraddizione profonda. Ovvero deve riuscire ad affidarsi ai suoi genitori adottivi, considerarli incapaci di abbandonare, protettivi per tutta la vita pur sapendo che si può essere abbandonati, lasciati soli. Significa caricarsi di una profonda contraddizione, appunto, e uscirne mentalmente indenne. Per questo ha senso lavorare su quale dovrebbe essere la rete protettiva intorno a questi ragazzi che affrontano compiti di così vasta portata. E’ necessario ragionare sull’effettiva consapevolezza dei genitori adottivi nell’accompagnare i loro figli in questa complessa elaborazione imposta loro dalla decisione di altri. Questi altri, per tutta la vita saranno un pensiero costante, saranno immaginati mille e mille volte, nelle forme più diverse, potranno essere un pensiero camuffato, nascosto, inquietante, minaccioso, doloroso, potranno essere un pensiero esplicito. Ad un certo punto potrà diventare impellente sapere in un bisogno profondo sollecitato, spesso inconsapevolmente, da amici, parenti, compagni di classe che nei diversi contesti hanno avuto ruoli determinanti. Proprio questa inconsapevolezza diventa talora inquietante, questa interazione costante avvenuta troppo velocemente tante volte. Gli stimoli che ne conseguono, la crisi, a volte, sulla propria identità sfuggono agli occhi delle persone care che vivono accanto ai ragazzi adottati stessi.

Cosa succede a una persona che decide di rintracciare la sua famiglia di origine?

Quale è il bisogno che accompagna la scelta di voler incontrare, guardare in faccia le persone che avrebbero dovuto essere la famiglia, con cui condividere il bene e il male che la vita avrebbe loro riservato?  Incontrarsi significa vedersi, guardarsi, scoprire somiglianze, o dissomiglianze, avere sensazioni piene e vuote, delusioni. Incontrarsi significa soprattutto potersi toccare, avere un contatto fisico, sentire passare tracce di memorie inconsapevoli. La memoria è qualcosa di complesso e poco conosciuta. Abbiamo tanti modi per ricordare, le sensazioni che si possono provare, in alcuni momenti, possono riportare nel presente sensazioni potenti del passato, di quando si era molto piccoli. Scoprire un passato di accudimento nei primi giorni di vita è molto importante, ed inquietante nello stesso tempo, perché potrebbe non esserci stato. Se si osserva un bambino alla nascita, o anche dopo mesi di vita, non può non cogliersi la sua vulnerabilità, l’impossibilità di sopravvivere se non vi è accanto qualcuno che si prenda cura di lui o di lei, un’attenzione dalla quale dipende la vita stessa.  Quanto equilibrio viene chiesto alle persone adottate. Viene da chiedersi come sia possibile sottovalutarlo, archiviarlo chiedendo a qualcun altro di avere capacità che noi stessi non avremmo.

<<QUANDO SI PARLA DI RICERCA DELLE ORIGINI, SAPPIAMO PER CERTO DI COSA STIAMO PARLANDO?>>

Si può scegliere in effetti soprattutto di stare in ascolto, di chiedere. Qualunque risposta arrivi a quel punto va bene. L’esperienza è che delle origini se ne possa parlare ed anche agevolmente con i diretti interessati, purché si abbia presente fortemente il proprio limite nel comprendere. A volte si è in due a non capire; si possono dire parole quasi vuote, appositamente leggere, per portare avanti la conversazione. E va bene così.

Nel pensiero comune invece, si mettono distanze, si evitano vicinanze ed intimità e si tende a pensare che le origini di una persona adottata siano collocate lontane, in paesi lontani nel caso delle adozioni internazionali, misteriosi. Si immaginano persone diverse da noi, per modi di fare, linguaggi, usi. Eppure nessuna persona è diversa da noi, siamo anche noi persone. Basta guardare le somiglianze piuttosto che le differenze e possiamo capire che tutti abbiamo bisogno di respirare, nutrirci e stare insieme.

Le origini che ci interessano, quello che è necessario esplorare sono dentro di sé, in colui che, magari non ricorda o ricorda solo qualcosa, sono nel tentativo di pensare, nel desiderio di raccontare, nel provare a dire, nelle parole usate, nello sguardo che cambia, nelle mani che si muovono. Sono per la maggior parte nell’inconscio di una persona e il rischio è di essere così rozzi da avvicinarsi all’anima dell’altro con una violenta superficialità.

<< I LUOGHI PIÙ IMPORTANTI SONO QUELLI INTERIORI>>

Sentire nel profondo è già difficile, condividere con un nostro simile, va oltre i limiti dei nostri sensi a volte. Se io sono lì con lui e sto parlando del suo passato, quello che dà confusione, probabilmente dolore, è importante che io, che sono stato scelto per ascoltare, sappia, che sono il suo presente. La persona che ho davanti sta condividendo con me la cosa più preziosa che ha, il suo ora, anche quando parla di un tempo lontano. Certamente se mi porta con sé, se quella persona mi porta con sé, allora significa che devo starci, che non posso andar via anche se dovessi entrare in confusione o mi spaventassi. Fare ricorso a ciò che non conosciamo, alle risorse della nostra mente non catalogate è quanto può essere necessario per sostenere una persona che vuole sapere e elaborare il suo passato, se ha subito un abbandono. Un ricordo troppo doloroso è, spesso, insopportabile. Il ricordo dell’abbandono può essere insopportabile. Allora che fare? Bisogna non rendere più complesso ciò che lo è già. In aiuto può venire incontro proprio il presente, che troppo spesso si vive senza riconoscerlo. E stare nel presente, a volte, significa anche saper rimanere in silenzio. Rimanere in silenzio è addirittura necessario quando entrambi gli interlocutori sentono emozioni profonde e non hanno parole per esprimerle, uno sforzo nel dire qualcosa sarebbe come provare a ritoccare un’opera d’arte. Il senso di impotenza che accomuna potrebbe trasformarsi in senso di potenza dando voce ma, a volte, è davvero un errore interrompere il silenzio, dare parole riduttive a qualcosa che bisogna solo sentire, vivere. Le elaborazioni migliori avvengono dopo poche parole e molto silenzio intriso da vicinanza.

I luoghi più importanti sono quelli interiori, i luoghi fisici sono necessari per stimolare sensazioni ai primi. E questo può accadere solo se c’è coerenza, quella coerenza data soltanto da chi vive in prima persona il contatto con la propria storia. Qui le sovrapposizioni degli altri sono ostacoli, schermi e inciampi. Sembra esserci una corsa verso i luoghi fisici, una corsa agitata ed esplicitata che mette assieme gruppi di persone, genitori, figli ed operatori, sembra quasi un modo per compensare un senso di impotenza e di vuoto mal sopportato. Dipende da quanto protagonismo ha, in questa delicata operazione, chi partecipa a questi viaggi fisici, pensati e pianificati a tavolino spesso con figli adolescenti. Dipende da quanto protagonismo (troppo talvolta) hanno i genitori, accompagnatori o co-protagonisti.

Articolo apparso su Genitori si diventa http://www.genitorisidiventa.org/notiziario/alla-ricerca-delle-proprie-origini-il-ruolo-di-chi-ascolta

Insegnanti artefici di inclusione: come?

Il benessere degli alunni di una classe, tutti, dipende soprattutto dal benessere degli insegnanti e da una reale possibilità di confronto tra scuola e famiglia, o, in assenza di una famiglia come interlocutore, tra la scuola e i riferimenti adulti (educatori, tutori) che seguono bambini e ragazzi. E’ evidente tuttavia come, troppo spesso, proprio questo rappresenti una criticità e per tale motivo diventi necessario continuare a mettere a fuoco concetti che possano essere utili.

Il ruolo dell’insegnante

E’ l’insegnante l’artefice dell’inclusione, colui/colei che include nella classe il bambino appena arrivato, la bambina la cui storia appare differente, il ragazzo dal comportamento complicato. Per farlo ha bisogno di avvalersi del proprio ruolo e della propria autorevolezza proprio per legittimare le differenze e il loro valore. L’insegnante veicola alla classe il messaggio centrale dell’accoglienza, fa la classe e ne delinea le regole.

Essere consapevoli del proprio ruolo rispetto agli alunni e alle alunne è quindi il primo passo fondamentale. Si è in grado di stare con loro, di fare parte delle loro storie, solo a partire da una posizione differente che permette di guardare bisogni e necessità dall’esterno del gruppo dei ragazzi pur facendo parte della storia globale di quello specifico gruppo. L’insegnante ha bisogno di sentire il proprio ruolo con chiarezza e di contare sulla propria autorevolezza, rapportandosi prima di tutto ad ogni singolo alunno nella costruzione di un gruppo che sappia accogliere chi arriva evitando di trasformare la sua novità in una differenza inavvicinabile (come può capitare per bambini e ragazzi che appaiono “troppo differenti” da quel che abitualmente si conosce).

Essere insieme

Non si costruisce la propria autorevolezza da soli. E’ la scuola come istituzione, come rete di colleghi che valorizza i propri insegnanti ed è questo il contesto da cui attingere per sentire e comprendere chi si è in classe. Le necessità di un insegnante devono trovare ascolto e risposta da parte dei colleghi e della dirigenza. Non sono gli alunni a dover farsi carico dei bisogni di chi sta dall’altra parte soprattutto quando si tratta di alunni con particolari necessità (basti pensare agli alunni che sono affiancati da un insegnante di sostegno ed hanno decisamente bisogno che ci sia una buona intesa tra tutti gli insegnanti della loro classe).

Nella quotidianità possono emergere molti momenti critici, in ogni situazione è necessario prima di tutto comprendere con sufficiente chiarezza quali siano i propri bisogni e porsi delle domande sincere (Sto bene in questa classe? Mi diverto con in miei alunni? Li sento con me? Ci sono ragazzi che mi mettono in difficoltà? Ci sono famiglie che non mi piacciono? Ho problemi con un/una collega?).

Le risorse per affrontare i contesti sono nella “rete” che si può sviluppare con in colleghi, con la dirigenza, con le famiglie, con i servizi territoriali.

  • Ci si può riunire periodicamente per condividere (tra colleghi) quanto accade in classe, i momenti di successo, le strategie efficaci? Ossia, può la dirigenza mettere a disposizione un tempo-spazio comune per conforntarsi assieme su prassi concrete e realizzabili?
  • Nei contesti più complessi è possibile prevedere incontri regolari con le famiglie (o con i punti di riferimento adulti nel caso di ragazzi e ragazze che vivono nelle comunità) per fare il punto sui progressi e le criticità?
  • E’ chiara la rete fuori della scuola (servizi territoriali, interlocutori nelle comunità, ecc.)? Ci si conosce e ci si fida gli uni degli altri?

Stare nel presente e accettare la propria impotenza

La classe vive la sua vita nel presente. Ciò che vi accade, apprendimento, insegnamento, relazioni accade nel suo adesso. La pianificazione è relativa ed ogni progettazione poi si misura con quanto accade in ogni preciso istante. Questa è la risorsa reale della vita in classe ed è quello che può essere usato dagli insegnanti in modo utile per alunni con particolari specificità.

Quando si ha a che fare con alunni cui “mancano” parti di vita (l’adozione, ad esempio, ci mette in contatto esattamente con queste realtà, ossia con il dover avere a che fare con l’assenza di informazioni, di storie, di narrazioni), saper stare nel presente ha davvero un valore di cura.

Si parte dal voler ascoltare quello che le persone raccontano. E’ la loro storia, ha diritto ad essere libera da griglie. I racconti debbono poter esserci quando i bambini sentono di poterli dire, quando vogliono dire, per quello che vogliono dire. Sono racconti che a volte spiazzano e appaiono incoerenti e, a volte, lasciano interdetti. La tentazione di cercare di imbrigliarli in un ipotetico significato tutto adulto può essere tanta (parlare di adozione significa accettare di sentire parlare di perdita ed abbandono e spesso si cercano ipotesi e giustificazioni). In realtà l’ascolto costringe ad accettare di essere impotenti.

Anche i comportamenti dei bambini e dei ragazzi a volte ci ricordano la nostra impotenza. Non possiamo prevedere tutto e tutto controllare, non possiamo neanche sempre dominare le nostre reazioni e agire nel migliore dei modi.  Accettare i nostri limiti è il primo passo per poter farli percepire anche a chi abbiamo accanto e quindi, di fatto, renderli reali e tangibili. Accettare di non sapere, di essere per l’appunto impotenti, accresce in realtà la nostra autorevolezza, permette ai ragazzi di sapere che si può stare anche nel “non lo so” e nell’imperfezione provando a non temere l’incognito e l’imprevedibile.  Comunica di essere disposti a vivere tutto questo con loro, accanto a loro.

Per i bambini e bambine convivere con il non sapere è faticoso, è della loro vita che non sanno, è la loro vita ad essere frammentata e interrotta da sconnessioni. Non si può cambiare un passato che è stato e su cui non si è avuto alcun controllo. A volte non si può nemmeno dare un senso o un significato. Non c’è. Sono questi bambini e queste ragazze a dover convivere con tutto questo ed avere accanto qualcuno che tollera il non sapere, il non potere, che convive anche lui o lei con sensazioni difficili da controllare, che testimonia di non essere spaventato, rassicura.

Non avere paura delle storie, significa non cercare di interpretarle. Non avere paura dei comportamente significa avere la potenzialità di contenerli. Non essere spaventati di chi si ha davanti permette di porsi assieme con sincerità, di stare accanto e di limitare.

Essere autorevoli nell’accettare l’impotenza significa riuscire a far vivere (a chi abbiamo accanto e ci guarda) come si sopravviva al senso di inadeguatezza. Bisogna non avere paura dei propri alunni.

  • Conoscere è la prima risorsa: sono davvero state lette le Linee di indirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati e le Linee Guida per il diritto allo studio degli alunni e delle alunne fuori della famiglia di origine ad esempio? Sono a disposizione?
  • Si può fare riferimento su colleghi referenti ?
  • Si può far conto su una documentazione agevole per riflettere sul da farsi?
  • Si può contare sull’attivazione di progetti a sostegno delle classi in caso di necessità?

Credere di poter fare la differenza

La Scuola come istituzione ha dei limiti. Gli insegnanti hanno dei limiti. E così le famiglie e i ragazzi. Non è facile, ad esempio, riuscire a stabilire un rapporto positivo con una famiglia con cui non è possibile dialogare, che è assente, che è troppo difensiva. I racconti degli insegnanti testimoniano queste difficoltà e come si trasformino inevitabilmente in difficoltà in classe.

Riconoscere però questi limiti, il “non avercela fatta”, l’essersi scontrati con muri e fallimenti porta con se la possibilità di ricordare ogni possibile aspetto positivo che è accaduto e quella positività resta. Gli insegnanti segnano la vita dei propri alunni e gli alunni ricordano a lungo (per sempre?) nel bene e nel male. Ricordano però anche il bene. Il bene resta. Di questo bisogna essere consapevoli. Sapere che si incide davvero positivamente sulla vite di bambini e ragazzi rende responsabili di quello che si fa. Permette di pensarsi positivamente accanto agli alunni e non immaginare le classi come palcoscenico di fallimento ma come luoghi di trasformazione.

  • Si ha a disposizione un luogo dove incontrare le famiglie o educatori adeguato e può essere adattato per offrire la possibilità di un incontro che non sia solo episodico e frammentato?
  • Esistono tempi per informare con chiarezza le famiglie e gli adulti di riferimento delle regole e delle risorse della scuola?
  • E’ possibile dire alle famiglie o agli educatori che seguono i ragazzi che la scuola si è documentata? E’ stata fatta formazione?
  • Ci ricordiamo di comunicare alle famiglie e agli adulti di riferimento quanto accade di positivo? Valorizziamo i progressi?

Strumenti utili:

Le Linee di indirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati

Le Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e le alunne fuori della famiglia di origine

In viaggio verso il futuro – a cura di Care Leavers Network

Feriti dentro – L. Bomber

Scuola e adozione – M. Chistolini

Una scuola aperta all’adozione – A. Guerrieri, M. Nobile

Articolo in collaborazione con Anna Guerrieri, apparso su Genitori si diventa

Questione di velocità

Partecipazione ad un articolo di Sara Leo pubblicato su Adozione in corso un articolo di Sara Leo dedicato alla genitorialità.

Quando aspettavo di diventare mamma non avevo mai pensato ai giochi che avrei fatto con mio figlio. Né se fosse stata femmina, né se fosse stato maschio. Oggi sono felicemente mamma di un ometto vivace e faccio sfrecciare macchinine per tutta la casa, faccio corse in ogni dove e invento mirabolanti avventure per auto da corsa parlanti. Insieme a mio marito giochiamo a fare i giudici di gara, poliziotti e furfanti a turno, nascondino, uno due tre stella e così via.  Insieme a noi c’è naturalmente nostro figlio, un vulcano a forma di bambino in continuo movimento. Se non sono gare della sua rossa fiammante, è una gara con mamma o acrobazie con papà e molto altro.

Quest’anno ha iniziato ad andare in palestra, come la chiama lui e l’insegnante ci ha fatto notare quanto sia un bimbo molto veloce in tutto, dal movimento, al linguaggio, al pensiero. Le emozioni, soprattutto la felicità e la frustrazione, spesso vengono inghiottite da questa velocità che trasforma tutto in movimento.

Rallentare

Stiamo imparando a rallentare e a dare un nome a quelle emozioni così difficili da spiegare. Soprattutto noi, mamma e papà, cerchiamo di mettere in pratica quello stare in contatto tutti e tre, necessario per costruire giorno dopo giorno il nostro noi.

A volte quando la forza di accelerazione è troppo forte, proviamo a moderare la velocità costruendo torri o garage per le macchinine, colorando o scoprendo pian piano i giochi di società noi tre insieme, ma soprattutto leggendo. Sì perché i libri ci riservano grandi avventure da leggere e da ascoltare, mentre lui attorciglia le sue dita nei nostri capelli per accoccolarsi e godere di quella lentezza che ci fa rallentare insieme.

E se questa bella sensazione venisse ricreata anche nei momenti in cui avvertiamo il sopraggiungere di quella spinta di accelerazione?

La parola allo psicologo

Ecco cosa ci dice in merito lo psicologo psicoterapeuta, dott. Francesco Marchianò, esperto di genitorialità e adozione.

“E’ legittimo per la mamma e il papà cercare di far rallentare il proprio bambino. Ricercare stratagemmi, la costruzione di garage dove sostare, è interessante sentirlo. A volte si riesce ed il gioco insieme diventa divertente e costruttivo per tutti i partecipanti, a volte non è così facile. L’irruenza non si placa ed i genitori sono in difficoltà. In questo caso parliamo di velocità che non consentono il confronto, che non danno la possibilità di guardarsi. Sono velocità, quelle, dove non si corre insieme, bensì ci si insegue.

Quando si ha veramente bisogno di scappare, non servono strategie creative, è troppo allettante, fra l’altro, per chi ha bisogno di correre fare lo slalom”.

“Ogni giorno fuori e dentro casa bisogna portare avanti una moltitudine di cose, più di quanto il tempo, finito di lavorare consente. In questa corsa, però, è assolutamente importante trovare il tempo per guardarsi. Come dicevamo, quando un bambino ha il desiderio di correre, non è sempre possibile fermarlo, non ha voglia di guardare nessuno. Si carica di energia, per motivi, che spesso sfuggono ai genitori. A scuola, con gli amici, mentre si fa sport, succedono tante cose che possono cambiare l’umore. Spesso un bambino non riesce subito a parlare quando gli è capitato qualcosa di spiacevole. Come se avesse un meccanismo a molle si carica silenziosamente per poi scattare, correre, dare fastidio, non si capisce il perché, a volte. L’energia accumulata, la trasforma in azione. Il solo desiderio, è di scappare via, fermandosi qualche decimo di secondo, unicamente per accertarsi che i genitori lo seguano con lo sguardo.

Non si potrà mai aiutare un bambino, se non capiamo i bisogni dell’adulto che è accanto a lui. Bisogna anche prendersi cura dei genitori. Non è raro, che un papà ed una mamma possono, avere un disagio, una difficoltà nella comunicazione. Sono eroici, a volte nei loro sforzi di sembrare sereni, per rassicurare i loro bambini. Questi sforzi, alla lunga, non premiano mai.

E così succede che, un genitore sovraccarico di pensieri, preoccupazioni, sia distratto e non sintonizzato e determini lui stesso un inasprimento della situazione.

Dobbiamo essere consapevoli, come genitori, che se insistiamo nel mettere da parte i nostri problemi, senza volerlo li carichiamo sui nostri figli. Mentre i bambini si scoprono e rivelano in qualche forma ciò che provano, la corsa è uno dei modi, l’adulto rimane immobile e diventa severo con se stesso e con gli altri. Il motivo che spinge entrambi è lo stesso, non sapere cosa fare ed evitare il confronto.

Il vissuto dei bambini passa nella vita dei genitori in maniera invisibile, basta un’espressione, un movimento veloce e la mamma ed il papà sono in allarme. Questo in qualsiasi famiglia.

Per aiutare bisogna sapersi aiutare, saper distinguere fra il proprio bisogno e quello dei figli. Per gestire le cose le intenzioni devono essere sincere, mai strumentali finalizzate al calmare l’umore dei piccoli. Ai bambini piace la sincerità”.

Genitori in gioco

A volte commettevo l’errore di fermarmi a decifrare comportamenti come fossero dei rebus, forse a volte capita ancora. Eppure mi accorgo sempre di più che nella quotidianità ciò che fa la differenza sia l’accogliersi reciproco e con rispetto e che questo influisce positivamente sullo stare bene, sul riuscire a sintonizzarsi e a crescere insieme. E’ bello rendersi conto che ognuno di noi tre può essere nutrimento per la nostra famiglia ed in modo naturale.

Con nostro figlio stiamo riscoprendo il linguaggio delle emozioni. Io prima di diventare mamma non ci avevo mai pensato, non credo nemmeno sia stato il diventarlo con l’adozione a far accendere la lampadina. Credo più che altro faccia parte dell’essere genitori che invita a mettersi in gioco, riservando l’opportunità di imparare sempre cose nuove. Il rallentare per ascoltarsi, il tollerare per comunicare meglio e il divertirsi perché le risate sono perfette sia con la velocità che con la lentezza.

In classe: l’importanza del conoscersi

Articolo con Anna Guerrieri, pubblicato anche su Genitori si diventa >>

Entrare in classe significa entrare in un gruppo vivo e vitale, concretissimo nella sua fisicità. Ha muri che lo circoscrivono, ha finestre da cui guardare fuori, attraverso cui entra sole, pioggia, vento. Bastano le pareti di una classe, la disposizione dei banchi, la loro adeguatezza o inadeguatezza ai bambini e ai ragazzi, a determinare forti sensazioni in chi entra, sono l’orizzonte che accoglie alunni e professori, sono il palcoscenico in cui si vivrà. La classe ha storie, voci. Ha entrate e uscite, ritmi, regole e trasgressioni. Ha passioni e commozioni, drammi improvvisi e gioie. Ha fughe. Ha i suoi ragazzi, i suoi insegnanti, ha ogni persona che la scuola la abita e la vive. La storia della classe è fatta di tutte queste storie insieme. Si snoda giorno per giorno, vive del passato di ognuno, delle famiglie di ognuno, degli eventi di ogni vita, resta nel futuro degli alunni e degli studenti che crescono e ne escono.  Giorno dopo giorno in classe si vive assieme. E la vive anche chi resta a casa, i genitori e i fratelli degli alunni, i famigliari degli insegnanti. In classe si gioca tanto della vita di ogni persona che la abita, attorno alla classe vivono in tanti. I ragazzi e le ragazze, i bambini e le bambine ne sono il battito, gli adulti assistono, interagiscono, sono trascinati dentro.

Il tempo che si passa a scuola va dalla prima infanzia a una lunga adolescenza, è il tempo di una vita e di una trasformazione. Vale la pena occuparsene se davvero si ritiene una cosa “seria” una scuola dove si stia bene, tutti, anche chi ha una storia poco usuale o complessa. Insegnare ad apprendere è il centro di gravità attorno a cui orbita la vita scolastica e non si può ignorare come per poter apprendere si debba poter “essere”, essere ascoltati per poter ascoltare, essere valorizzati per poter dare valore, essere scoperti se si vuole insegnare a scoprire. In classe gli alunni rispondono a domande su di sé, sulle proprie storie, ogni istante. Danno ai compagni e agli insegnanti parti importanti della propria vita, del proprio passato e del proprio presente. Insegnano. Questo è il motivo per cui il tema della comunicazione reciproca è così rilevante, per non ricondurre il benessere della vita a scuola solo alla ripetizione di progetti sempre uguali, troppo uniformati e uniformanti nonostante la loro apparente innovatività, privilegiando la “soluzione” semplice rispetto alla necessità continua di creare una dimensione di scambio non basato sul prevalere di alcuni (le storie positive e di successo) sugli altri (le storie più complesse o critiche). Ogni progetto (dedicato alla narrazione, alla storia personale, alla risoluzione dei conflitti, all’educazione affettiva, alla gestione dei social media, ecc.) avrà senso solo se attuato all’interno di un clima in cui alunni e insegnanti (e quindi anche insegnanti e genitori, figli e genitori) possano parlarsi e ascoltarsi per davvero.

Lavorare con i piccoli gruppi permette di osservare quanto ognuno dei partecipanti si adatti alle esuberanze e le necessità di pochi membri, e viva il gruppo facendosi rappresentare. Nella quasi totalità dei casi le risorse migliori, se non sollecitate, rimangono silenti, rispettando i tempi ed i modi di esprimersi che, chi si propone come leader, stabilisce. Accettare questi silenzi senza intervenire è una perdita importante, è lì che sfuggono le vite di troppi bambini e ragazzi, quelli che sembrano sempre sullo sfondo, evitando di buttarsi in avanti, di esporsi, di rischiare. Perché la classe possa godere della ricchezza della loro esperienza diventa fondamentale integrare queste molteplicità, andando a stimolare chi è in grado di attivarsi e partecipare, mettendoli nelle condizioni di poter parlare di sé, raccontare qualcosa di originale, manifestare, insomma, interesse verso chi solitamente rimane in ascolto. Affinché diventino risorsa l’uno per l’altro è necessario far si che chi si espone sia in contatto con chi si ritrae, affinché le dinamiche di potere non si cristallizzino condannando chi è leader ad essere sempre “davanti” e chi evita sempre “dietro”; in ultima analisi evitando schivamenti e prevaricazioni, evitando il rifiuto di chi viene percepito altro e distante, fuori dal cerchio.

Chi vive nella differenza non sa quanto sarà accolto, né come. Dovrà scoprire il mondo in cui entra e percepire la possibilità di starci. Dovrà testate se la propria differenza (somatica, per storia famigliare, per scelta sessuale, di vita, cognitiva, fisica) sia accettabile o meno, e quanto, sino a che punto accettabile. Scoprire se “davvero” in classe si possa parlare (essere in ultima analisi) fa una differenza enorme, permette di immaginare di poter raccontare qualcosa sapendo che per gli altri “va bene così”, senza dover prevalere o travestirsi da vincente. Non basta un film proiettato in classe, né un libro, né un intero progetto a garantire che si dia spazio vero a chi ha bisogno di sentirsi accettato perché di fatto impossibile insegnare ad altri ciò che non si sperimenta o avvicina almeno un poco. Avere in classe, ad esempio, alunni con storie di adozione, di affido, con storie famigliari segmentate e non basate sulla somiglianza e l’appartenenza fisica, fatte spesso di “non sapere” cosa ci sia nel passato, mette in contatto con quello che si prova sulla perdita, sull’abbandono, sulla capacità di essere genitori e sull’appartenenza.

Provare “vergogna” ad esporsi, impossibilitati nel trovare la propria voce, quella reale, questa è la sensazione narrata a volte da ragazzi e ragazze che si sentono troppo differenti dagli “altri”. Se si pensa a ad un bambino o ragazzo adottato internazionalmente che ha cambiato bruscamente vita, contesto di accudimento, lingua si percepisce come possa (almeno talvolta) sentirsi sovraesposto, la competenza acquisita nel passato può non essere più utilizzabile nel suo presente, anzi può diventare inadeguata. I comportamenti appaiono poco comprensibili agli adulti che lo circondano, sfuggono alle categorie, alle sigle e alle diagnosi proprio perché azioni e reazioni possono essere innescate e determinate da ciò che si è imparato in un prima di cui nessuno è testimone. E’ proprio il non “capirsi” (come anche quando non si comprende la fatica di chi pensa e apprende in modo differente) che può innescare una ghirlanda di problematicità.  Eppure le differenze si potrebbero facilmente trasformare in risorsa proprio perché, mettendo in evidenza un limite e amplificando le incongruenze fra quanto si dichiara e quanto si vive realmente, innescano cambiamenti. In questi contesti diventa un rischio non soffermarsi, non cogliere la complessità delle relazioni umane, riferire il senso delle cose che stanno intorno a se stessi e ai propri bisogni (insegnanti, genitori), pensando di aver ragione, non sapendo mediare, solo alla ricerca di conferme personali. E’ allora, ad esempio, che il sistema entra in scena e prende lo spazio che spetterebbe alle persone. Restano a quel punto solo le sigle e le diagnosi, richieste dalla scuola, temute-inseguite dalle famiglie, percepite in ultima analisi come “difese” per gli adulti, piuttosto che come utili alle persone che ne sono protagoniste.

Spesso si è privi di alfabetizzazione per quanto riguarda la capacità di relazionarsi con l’altro riuscendo veramente a conoscerlo, sapendosi nutrire delle fragilità e vitalità che sono contenute in una relazione. La relazione è un fluttuare continuo, può vivere intensamente attraverso le parole e attraverso i silenzi, anche solo un cenno, un movimento rapido di un sopracciglio può avere un significato profondo se c’è una relazione. Ciò che percepiamo è la realtà, ovvero noi viviamo esclusivamente delle nostre percezioni. A volte sono inquinate dai ricordi del passato dalla percezione di noi stessi, da cosa attribuiamo a chi ci sta intorno indipendentemente da chi è veramente. Le abitudini diventano fondamentali, i ruoli formali ed informali strutturano più rigidamente di quanto riusciamo ad immaginare la realtà che ci circonda, siamo sempre alla ricerca di rassicurazioni, la nostra mente apparentemente flessibile e capace di nuovi adattamenti combatte, più di quanto crediamo, contro ciò che può rappresentare un cambiamento anche positivo. Si giocano ruoli di potere nei gruppi (ed anche nelle classi) che mettono in evidenza la caparbietà assurda perdurare nel non cambiamento, nella non evoluzione.

La scuola è un luogo ove si concentrano una molteplicità di situazioni, tanti ruoli che interagiscono, programmi da portare avanti, verifiche, interrogazioni. Gli strumenti pensati per trasferire sapere, cultura, capacità di pensiero critico, quindi per il bene degli alunni possono trasformarsi anche senza accorgersene in strumenti che perdono il loro senso originario, fini a sé stessi, autoreferenziali, utili all’istituzione e non alla persona e quindi danneggiati e possibilmente danneggianti. Basta pensare a quando il sistema della valutazione possa apparire talvolta troppo determinato da necessità estranee alle persone (“devo fare così perché il registro elettronico me lo impone”), quando non è più funzionale alla crescita della consapevolezza, quando non insegna più, non parla. E’ allora che perde il suo valore così grande, è allora che perde equità umana ed è allora, che nonostante le migliori intenzioni, può urtare e scheggiare, può costringere alla ritirata, a nascondersi, a sparire e rinunciare. Un Piano Didattico Personalizzato pensato con le migliori intenzioni può trasformarsi, fin troppo facilmente, da strumento essenziale ed utile in terreno di guerra e combattimento e non più strumento al servizio dei bambini e dei ragazzi con differente modo di apprendere.

Agli studenti spesso manca il contatto e la sensazione dell’umanità, come agli insegnanti manca la sensazione del confronto, del dialogo ed in ultima analisi del rispetto. Lavorare sulla restituzione dell’umanità significa cercare di restituire ad ogni abitante della classe la percezione che ciò che in essa accade ha un profondo valore prima di tutto per sé stessi. Intervenire diventa come versare da bere ad una persona terribilmente assetata che ha come unico contenitore un bicchiere senza fondo, l’unica cosa è far in modo che usi le sue mani per raccogliere l’acqua e così riprenda contatto con tutto ciò gli viene proposto. Deve essere un contatto reale e concreto con il rispetto, con il proprio valore. La scuola si occupa dell’istruzione di tanti e tanti esseri umani contemporaneamente tutti con diverse storie personali, famigliari, etnia e quanto altro e deve essere supportata con concreta energia. Ogni progetto, valido che possa agire sulla comunicazione del gruppo classe, la condivisione di valori vanno favoriti, facilitati in un processo che non vada dall’esterno all’interno, ma che sia co-costruito a partire da una conoscenza. Chi entra nella scuola per dare il proprio contributo deve conoscerne le regole, essere di supporto alle figure che già vi lavorano. Non si tratta di aspetti accessori, bensì fondamentali pena situazioni di disagio alcune volte eclatanti, altre silenziose e pericolosamente troppo discrete. Umanizzare tutto ciò che è ulteriormente umanizzabile ed anche francamente contenere le dinamiche di protagonismo che finiscono per soffocare menti delicate e desiderose di sentirsi accolte, è necessario e deve venire assieme – forse prima – ad ogni ideazione progettuale sempre utile (apprendimento cooperativo, metodo autobiografico, ecc.).

Ogni dinamica di potere trae le sue origini proprio dalle disattenzioni, dal potersi permettere di non sollecitare e tenere dentro risorse umane importanti.  Se parliamo di ragazzi nessuno si osserva intorno per capire le regole del funzionamento delle relazioni umane più di una persona nel periodo della sua crescita. Per i ragazzi le relazioni umane sono il centro di gravità permanente; sono le relazioni famigliari, con gli insegnanti, con i compagni e gli amici, con il quartiere che contano in modo totale. Sono le relazioni che rendono le canzoni interessanti, o le serie televisive, o le storie Instagram. I ragazzi cercano conferma dai genitori, anche trasgredendo, per capire quanto è importante ciò che dicono e credono realmente. Se colgono incoerenza e noncuranza, incapacità di immedesimarsi nell’altro cosa potranno proporre nelle loro relazioni? Se gli adulti hanno un atteggiamento di noncuranza e falsità cosa possono fare da soli i ragazzi e cosa possono fare anche i professori più dedicati? Portare più “civiltà” nelle nostre classi partendo da una azione di condivisione e partecipazione da parte delle figure adulte è la strada che accompagna necessariamente ogni investimento sulla scuola partendo dal voler conoscere chi si ha davanti, dal voler diventare consapevoli, dal credere sempre di potersi ascoltare.

Strumenti utili:

Le Linee di indirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati 

Le Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e delle alunne fuori della famiglia di origine 

 

Intravedere una risorsa

Uno dei lavori più complessi è interrompere l’ereditarietà che passa inesorabile da una generazione all’altra. Non ci si rende conto ma, spesso, i problemi che viviamo sono il prodotto di un insieme di ricordi e di situazioni vissuti nel passato che danno agli accadimenti del presente un senso di ineluttabilità. Lavorare su tale consapevolezza, riuscire ad osservarsi, ovvero guardarsi  dall’esterno, è uno degli sforzi che il terapeuta può chiedere al suo cliente.

Allontanarsi dai ricordi spiacevoli del passato, tenere lontano le sensazioni che fanno star male è un diritto di chiunque. 

Una relazione di aiuto si basa sul non dimenticare mai il presente, sulla capacità di guardare oltre la difficoltà che sembra insormontabile. E’ importante credere nelle risorse insperate, come è importante che non si smetta mai di cercare il guizzo, la carta vincente dell’altro.

La ricerca di uno spazio di felicità, di un pensiero sereno, mentre si affronta il dolore, serve per riprendere fiato.

Anche nelle situazioni più drammatiche si può intravedere una risorsa, grazie alla consapevolezza del nostro limite. La consapevolezza che permette l’incontro. 

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