Non è facile provare a immedesimarsi in una ragazza o un ragazzo adottati che cercano di entrare in contatto con la propria famiglia di origine. Bisogna essere sinceri e ammettere che si può anche restare stupiti di non provare solo (o affatto) piacevoli sensazioni. Di fatto impone di decodificare una moltitudine di informazioni contrastanti. E’ impegnativo, forse impossibile e se poi accantoniamo il pensiero dell’immedesimazione e pensiamo solo allo stare accanto a qualcuno che ci conduce in una vita che lui stesso non conosce, che cerca un ritorno al senso e al significato del proprio nascere ed essere, ci rendiamo conto di quanto sia complesso. Ci porta, effettivamente, dove lui stesso non sa esattamente come stare, non sa spesso cosa trovare. Si tratta di non poter prevedere cosa si scoprirà e come si reagirà. Ascoltare, se non si è adottati in prima persona, il racconto di un ritorno concreto o di viaggio interiore, richiede saper sospendere sé stessi lasciandosi portare altrove, un altrove dove chi racconta ha vissuto un’assenza di controllo.
Chi è alla ricerca di queste proprie origini, quelle da cui si è stati separati (in particolar modo quando non se ne ha ricordo) ha bisogno di essere capito, compreso, incluso nella vita di chi ha il privilegio di essere stato scelto come ascoltatore, ma soprattutto ha bisogno che chi gli sta vicino si faccia includere. Deve essere uno scambio equo, un ascolto onestamente reciproco che non metta una distanza invalicabile.
Per dare un senso al divenire
Quando, a partire da una storia di adozione, si parla delle proprie origini ci si avvicina, con la mente, con il pieno delle emozioni, inevitabilmente anche all’abbandono e alla perdita, alla realtà che li ha causati. Si può ritornare a sentire, come quando si era bambini, di avere qualcosa che non va. Il ruolo di chi sta accanto, di chi ascolta allora, particolarmente se è un genitore adottivo, può dover diventare attivo perché deve contrastare questo pensiero. Deve far toccare con mano che ciò che è avvenuto, non è stato a causa di una carenza di chi è stato lasciato. Quando nasciamo non abbiamo alcun potere sulla nostra nascita, la subiamo, e per tutta la vita siamo vincolati a quel momento, vivi perché nati. Per questo la nascita ha (e deve avere nella narrazione di sé stessi) un grande significato ed essere collegata a tutto ciò che succede dopo. Per dare il senso al divenire della nostra vita, abbiamo la necessità di condividere, di guardare nella stessa direzione in cui guarda qualcun altro e abbiamo bisogno di farlo dall’inizio, quando noi c’eravamo ma non sapevamo come testimoniare il nostro esserci. Abbiamo bisogno di chi ci racconti, di testimoni. L’inizio, di fatto, lo narrano altri per noi, che c’erano e sapevano. E’ la storia della nostra storia, quella che ci piace (o dispiace) ascoltare, quella che ci dà il motivo, che ci inserisce in un quadro generale che riusciamo a comprendere. Dove non siamo soli, unici. Siamo tutti alla ricerca di una rassicurazione, di sapere che qualcuno ci vuole, che non siamo sbagliati. E così, come per la nostra nascita, dipendiamo da chi ci nutre e permette di non morire, e da chi può raccontare di averci fatto nascere, nutrito e protetto. Quando si è bambini qualcuno decide, ha il potere assoluto. Il senso della vita dei bambini lo dà prima di tutto chi decide di farli nascere ed è insito nell’essere umano poi esplorare, sapere, capire i perché di alcune scelte che riguardano sé stessi, soprattutto quelle scelte che noi non abbiamo preso.
INTERPRETANDO LA PROPRIA VITA
Niente, nell’interpretare la propria vita, è mai semplice e può ridursi all’essenza, solo alle sensazioni provate in ciò che accade nell’attualità. Le sensazioni del presente stesso, tra l’altro, sono frutto di vissuti che si sovrappongono fra il qui e ora ed esperienze del passato, un insieme di pensieri che scaturiscono da vissuti diretti ed indiretti, ricordi personali e raccontati da chi può avere memoria. Contattare le persone, che sanno cose importanti del passato della propria vita, è a volte un bisogno impellente nel tentativo di portare, quanto si percepisce di sé, a fluire in un unico percorso. Per quanto forse sia illusorio e poco conciliabile con la realtà, il tentativo è vitale perché la mente si concentra sulla decodifica di elementi che non possono contribuire alla piena conoscenza se non vengono intrecciate con altre informazioni.
Abbandonare un bambino è innaturale, il senso di colpa che si innesca nella figura accudente, quando non riesce, pur magari mettendocela anche tutta, a proteggere i propri piccoli è inevitabile. Chi è stato adottato pertanto si trova a dover gestire una contraddizione profonda. Ovvero deve riuscire ad affidarsi ai suoi genitori adottivi, considerarli incapaci di abbandonare, protettivi per tutta la vita pur sapendo che si può essere abbandonati, lasciati soli. Significa caricarsi di una profonda contraddizione, appunto, e uscirne mentalmente indenne. Per questo ha senso lavorare su quale dovrebbe essere la rete protettiva intorno a questi ragazzi che affrontano compiti di così vasta portata. E’ necessario ragionare sull’effettiva consapevolezza dei genitori adottivi nell’accompagnare i loro figli in questa complessa elaborazione imposta loro dalla decisione di altri. Questi altri, per tutta la vita saranno un pensiero costante, saranno immaginati mille e mille volte, nelle forme più diverse, potranno essere un pensiero camuffato, nascosto, inquietante, minaccioso, doloroso, potranno essere un pensiero esplicito. Ad un certo punto potrà diventare impellente sapere in un bisogno profondo sollecitato, spesso inconsapevolmente, da amici, parenti, compagni di classe che nei diversi contesti hanno avuto ruoli determinanti. Proprio questa inconsapevolezza diventa talora inquietante, questa interazione costante avvenuta troppo velocemente tante volte. Gli stimoli che ne conseguono, la crisi, a volte, sulla propria identità sfuggono agli occhi delle persone care che vivono accanto ai ragazzi adottati stessi.
Cosa succede a una persona che decide di rintracciare la sua famiglia di origine?
Quale è il bisogno che accompagna la scelta di voler incontrare, guardare in faccia le persone che avrebbero dovuto essere la famiglia, con cui condividere il bene e il male che la vita avrebbe loro riservato? Incontrarsi significa vedersi, guardarsi, scoprire somiglianze, o dissomiglianze, avere sensazioni piene e vuote, delusioni. Incontrarsi significa soprattutto potersi toccare, avere un contatto fisico, sentire passare tracce di memorie inconsapevoli. La memoria è qualcosa di complesso e poco conosciuta. Abbiamo tanti modi per ricordare, le sensazioni che si possono provare, in alcuni momenti, possono riportare nel presente sensazioni potenti del passato, di quando si era molto piccoli. Scoprire un passato di accudimento nei primi giorni di vita è molto importante, ed inquietante nello stesso tempo, perché potrebbe non esserci stato. Se si osserva un bambino alla nascita, o anche dopo mesi di vita, non può non cogliersi la sua vulnerabilità, l’impossibilità di sopravvivere se non vi è accanto qualcuno che si prenda cura di lui o di lei, un’attenzione dalla quale dipende la vita stessa. Quanto equilibrio viene chiesto alle persone adottate. Viene da chiedersi come sia possibile sottovalutarlo, archiviarlo chiedendo a qualcun altro di avere capacità che noi stessi non avremmo.
<<QUANDO SI PARLA DI RICERCA DELLE ORIGINI, SAPPIAMO PER CERTO DI COSA STIAMO PARLANDO?>>
Si può scegliere in effetti soprattutto di stare in ascolto, di chiedere. Qualunque risposta arrivi a quel punto va bene. L’esperienza è che delle origini se ne possa parlare ed anche agevolmente con i diretti interessati, purché si abbia presente fortemente il proprio limite nel comprendere. A volte si è in due a non capire; si possono dire parole quasi vuote, appositamente leggere, per portare avanti la conversazione. E va bene così.
Nel pensiero comune invece, si mettono distanze, si evitano vicinanze ed intimità e si tende a pensare che le origini di una persona adottata siano collocate lontane, in paesi lontani nel caso delle adozioni internazionali, misteriosi. Si immaginano persone diverse da noi, per modi di fare, linguaggi, usi. Eppure nessuna persona è diversa da noi, siamo anche noi persone. Basta guardare le somiglianze piuttosto che le differenze e possiamo capire che tutti abbiamo bisogno di respirare, nutrirci e stare insieme.
Le origini che ci interessano, quello che è necessario esplorare sono dentro di sé, in colui che, magari non ricorda o ricorda solo qualcosa, sono nel tentativo di pensare, nel desiderio di raccontare, nel provare a dire, nelle parole usate, nello sguardo che cambia, nelle mani che si muovono. Sono per la maggior parte nell’inconscio di una persona e il rischio è di essere così rozzi da avvicinarsi all’anima dell’altro con una violenta superficialità.
<< I LUOGHI PIÙ IMPORTANTI SONO QUELLI INTERIORI>>
Sentire nel profondo è già difficile, condividere con un nostro simile, va oltre i limiti dei nostri sensi a volte. Se io sono lì con lui e sto parlando del suo passato, quello che dà confusione, probabilmente dolore, è importante che io, che sono stato scelto per ascoltare, sappia, che sono il suo presente. La persona che ho davanti sta condividendo con me la cosa più preziosa che ha, il suo ora, anche quando parla di un tempo lontano. Certamente se mi porta con sé, se quella persona mi porta con sé, allora significa che devo starci, che non posso andar via anche se dovessi entrare in confusione o mi spaventassi. Fare ricorso a ciò che non conosciamo, alle risorse della nostra mente non catalogate è quanto può essere necessario per sostenere una persona che vuole sapere e elaborare il suo passato, se ha subito un abbandono. Un ricordo troppo doloroso è, spesso, insopportabile. Il ricordo dell’abbandono può essere insopportabile. Allora che fare? Bisogna non rendere più complesso ciò che lo è già. In aiuto può venire incontro proprio il presente, che troppo spesso si vive senza riconoscerlo. E stare nel presente, a volte, significa anche saper rimanere in silenzio. Rimanere in silenzio è addirittura necessario quando entrambi gli interlocutori sentono emozioni profonde e non hanno parole per esprimerle, uno sforzo nel dire qualcosa sarebbe come provare a ritoccare un’opera d’arte. Il senso di impotenza che accomuna potrebbe trasformarsi in senso di potenza dando voce ma, a volte, è davvero un errore interrompere il silenzio, dare parole riduttive a qualcosa che bisogna solo sentire, vivere. Le elaborazioni migliori avvengono dopo poche parole e molto silenzio intriso da vicinanza.
I luoghi più importanti sono quelli interiori, i luoghi fisici sono necessari per stimolare sensazioni ai primi. E questo può accadere solo se c’è coerenza, quella coerenza data soltanto da chi vive in prima persona il contatto con la propria storia. Qui le sovrapposizioni degli altri sono ostacoli, schermi e inciampi. Sembra esserci una corsa verso i luoghi fisici, una corsa agitata ed esplicitata che mette assieme gruppi di persone, genitori, figli ed operatori, sembra quasi un modo per compensare un senso di impotenza e di vuoto mal sopportato. Dipende da quanto protagonismo ha, in questa delicata operazione, chi partecipa a questi viaggi fisici, pensati e pianificati a tavolino spesso con figli adolescenti. Dipende da quanto protagonismo (troppo talvolta) hanno i genitori, accompagnatori o co-protagonisti.
Articolo apparso su Genitori si diventa http://www.genitorisidiventa.org/notiziario/alla-ricerca-delle-proprie-origini-il-ruolo-di-chi-ascolta