Il benessere degli alunni di una classe, tutti, dipende soprattutto dal benessere degli insegnanti e da una reale possibilità di confronto tra scuola e famiglia, o, in assenza di una famiglia come interlocutore, tra la scuola e i riferimenti adulti (educatori, tutori) che seguono bambini e ragazzi. E’ evidente tuttavia come, troppo spesso, proprio questo rappresenti una criticità e per tale motivo diventi necessario continuare a mettere a fuoco concetti che possano essere utili.
Il ruolo dell’insegnante
E’ l’insegnante l’artefice dell’inclusione, colui/colei che include nella classe il bambino appena arrivato, la bambina la cui storia appare differente, il ragazzo dal comportamento complicato. Per farlo ha bisogno di avvalersi del proprio ruolo e della propria autorevolezza proprio per legittimare le differenze e il loro valore. L’insegnante veicola alla classe il messaggio centrale dell’accoglienza, fa la classe e ne delinea le regole.
Essere consapevoli del proprio ruolo rispetto agli alunni e alle alunne è quindi il primo passo fondamentale. Si è in grado di stare con loro, di fare parte delle loro storie, solo a partire da una posizione differente che permette di guardare bisogni e necessità dall’esterno del gruppo dei ragazzi pur facendo parte della storia globale di quello specifico gruppo. L’insegnante ha bisogno di sentire il proprio ruolo con chiarezza e di contare sulla propria autorevolezza, rapportandosi prima di tutto ad ogni singolo alunno nella costruzione di un gruppo che sappia accogliere chi arriva evitando di trasformare la sua novità in una differenza inavvicinabile (come può capitare per bambini e ragazzi che appaiono “troppo differenti” da quel che abitualmente si conosce).
Essere insieme
Non si costruisce la propria autorevolezza da soli. E’ la scuola come istituzione, come rete di colleghi che valorizza i propri insegnanti ed è questo il contesto da cui attingere per sentire e comprendere chi si è in classe. Le necessità di un insegnante devono trovare ascolto e risposta da parte dei colleghi e della dirigenza. Non sono gli alunni a dover farsi carico dei bisogni di chi sta dall’altra parte soprattutto quando si tratta di alunni con particolari necessità (basti pensare agli alunni che sono affiancati da un insegnante di sostegno ed hanno decisamente bisogno che ci sia una buona intesa tra tutti gli insegnanti della loro classe).
Nella quotidianità possono emergere molti momenti critici, in ogni situazione è necessario prima di tutto comprendere con sufficiente chiarezza quali siano i propri bisogni e porsi delle domande sincere (Sto bene in questa classe? Mi diverto con in miei alunni? Li sento con me? Ci sono ragazzi che mi mettono in difficoltà? Ci sono famiglie che non mi piacciono? Ho problemi con un/una collega?).
Le risorse per affrontare i contesti sono nella “rete” che si può sviluppare con in colleghi, con la dirigenza, con le famiglie, con i servizi territoriali.
- Ci si può riunire periodicamente per condividere (tra colleghi) quanto accade in classe, i momenti di successo, le strategie efficaci? Ossia, può la dirigenza mettere a disposizione un tempo-spazio comune per conforntarsi assieme su prassi concrete e realizzabili?
- Nei contesti più complessi è possibile prevedere incontri regolari con le famiglie (o con i punti di riferimento adulti nel caso di ragazzi e ragazze che vivono nelle comunità) per fare il punto sui progressi e le criticità?
- E’ chiara la rete fuori della scuola (servizi territoriali, interlocutori nelle comunità, ecc.)? Ci si conosce e ci si fida gli uni degli altri?
Stare nel presente e accettare la propria impotenza
La classe vive la sua vita nel presente. Ciò che vi accade, apprendimento, insegnamento, relazioni accade nel suo adesso. La pianificazione è relativa ed ogni progettazione poi si misura con quanto accade in ogni preciso istante. Questa è la risorsa reale della vita in classe ed è quello che può essere usato dagli insegnanti in modo utile per alunni con particolari specificità.
Quando si ha a che fare con alunni cui “mancano” parti di vita (l’adozione, ad esempio, ci mette in contatto esattamente con queste realtà, ossia con il dover avere a che fare con l’assenza di informazioni, di storie, di narrazioni), saper stare nel presente ha davvero un valore di cura.
Si parte dal voler ascoltare quello che le persone raccontano. E’ la loro storia, ha diritto ad essere libera da griglie. I racconti debbono poter esserci quando i bambini sentono di poterli dire, quando vogliono dire, per quello che vogliono dire. Sono racconti che a volte spiazzano e appaiono incoerenti e, a volte, lasciano interdetti. La tentazione di cercare di imbrigliarli in un ipotetico significato tutto adulto può essere tanta (parlare di adozione significa accettare di sentire parlare di perdita ed abbandono e spesso si cercano ipotesi e giustificazioni). In realtà l’ascolto costringe ad accettare di essere impotenti.
Anche i comportamenti dei bambini e dei ragazzi a volte ci ricordano la nostra impotenza. Non possiamo prevedere tutto e tutto controllare, non possiamo neanche sempre dominare le nostre reazioni e agire nel migliore dei modi. Accettare i nostri limiti è il primo passo per poter farli percepire anche a chi abbiamo accanto e quindi, di fatto, renderli reali e tangibili. Accettare di non sapere, di essere per l’appunto impotenti, accresce in realtà la nostra autorevolezza, permette ai ragazzi di sapere che si può stare anche nel “non lo so” e nell’imperfezione provando a non temere l’incognito e l’imprevedibile. Comunica di essere disposti a vivere tutto questo con loro, accanto a loro.
Per i bambini e bambine convivere con il non sapere è faticoso, è della loro vita che non sanno, è la loro vita ad essere frammentata e interrotta da sconnessioni. Non si può cambiare un passato che è stato e su cui non si è avuto alcun controllo. A volte non si può nemmeno dare un senso o un significato. Non c’è. Sono questi bambini e queste ragazze a dover convivere con tutto questo ed avere accanto qualcuno che tollera il non sapere, il non potere, che convive anche lui o lei con sensazioni difficili da controllare, che testimonia di non essere spaventato, rassicura.
Non avere paura delle storie, significa non cercare di interpretarle. Non avere paura dei comportamente significa avere la potenzialità di contenerli. Non essere spaventati di chi si ha davanti permette di porsi assieme con sincerità, di stare accanto e di limitare.
Essere autorevoli nell’accettare l’impotenza significa riuscire a far vivere (a chi abbiamo accanto e ci guarda) come si sopravviva al senso di inadeguatezza. Bisogna non avere paura dei propri alunni.
- Conoscere è la prima risorsa: sono davvero state lette le Linee di indirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati e le Linee Guida per il diritto allo studio degli alunni e delle alunne fuori della famiglia di origine ad esempio? Sono a disposizione?
- Si può fare riferimento su colleghi referenti ?
- Si può far conto su una documentazione agevole per riflettere sul da farsi?
- Si può contare sull’attivazione di progetti a sostegno delle classi in caso di necessità?
Credere di poter fare la differenza
La Scuola come istituzione ha dei limiti. Gli insegnanti hanno dei limiti. E così le famiglie e i ragazzi. Non è facile, ad esempio, riuscire a stabilire un rapporto positivo con una famiglia con cui non è possibile dialogare, che è assente, che è troppo difensiva. I racconti degli insegnanti testimoniano queste difficoltà e come si trasformino inevitabilmente in difficoltà in classe.
Riconoscere però questi limiti, il “non avercela fatta”, l’essersi scontrati con muri e fallimenti porta con se la possibilità di ricordare ogni possibile aspetto positivo che è accaduto e quella positività resta. Gli insegnanti segnano la vita dei propri alunni e gli alunni ricordano a lungo (per sempre?) nel bene e nel male. Ricordano però anche il bene. Il bene resta. Di questo bisogna essere consapevoli. Sapere che si incide davvero positivamente sulla vite di bambini e ragazzi rende responsabili di quello che si fa. Permette di pensarsi positivamente accanto agli alunni e non immaginare le classi come palcoscenico di fallimento ma come luoghi di trasformazione.
- Si ha a disposizione un luogo dove incontrare le famiglie o educatori adeguato e può essere adattato per offrire la possibilità di un incontro che non sia solo episodico e frammentato?
- Esistono tempi per informare con chiarezza le famiglie e gli adulti di riferimento delle regole e delle risorse della scuola?
- E’ possibile dire alle famiglie o agli educatori che seguono i ragazzi che la scuola si è documentata? E’ stata fatta formazione?
- Ci ricordiamo di comunicare alle famiglie e agli adulti di riferimento quanto accade di positivo? Valorizziamo i progressi?
Strumenti utili:
Le Linee di indirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati
Le Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e le alunne fuori della famiglia di origine
In viaggio verso il futuro – a cura di Care Leavers Network
Feriti dentro – L. Bomber
Scuola e adozione – M. Chistolini
Una scuola aperta all’adozione – A. Guerrieri, M. Nobile
Articolo in collaborazione con Anna Guerrieri, apparso su Genitori si diventa