Francesco Marchianò

Psicologo, psicoterapeuta

Tag: scuola

Insegnanti artefici di inclusione: come?

Il benessere degli alunni di una classe, tutti, dipende soprattutto dal benessere degli insegnanti e da una reale possibilità di confronto tra scuola e famiglia, o, in assenza di una famiglia come interlocutore, tra la scuola e i riferimenti adulti (educatori, tutori) che seguono bambini e ragazzi. E’ evidente tuttavia come, troppo spesso, proprio questo rappresenti una criticità e per tale motivo diventi necessario continuare a mettere a fuoco concetti che possano essere utili.

Il ruolo dell’insegnante

E’ l’insegnante l’artefice dell’inclusione, colui/colei che include nella classe il bambino appena arrivato, la bambina la cui storia appare differente, il ragazzo dal comportamento complicato. Per farlo ha bisogno di avvalersi del proprio ruolo e della propria autorevolezza proprio per legittimare le differenze e il loro valore. L’insegnante veicola alla classe il messaggio centrale dell’accoglienza, fa la classe e ne delinea le regole.

Essere consapevoli del proprio ruolo rispetto agli alunni e alle alunne è quindi il primo passo fondamentale. Si è in grado di stare con loro, di fare parte delle loro storie, solo a partire da una posizione differente che permette di guardare bisogni e necessità dall’esterno del gruppo dei ragazzi pur facendo parte della storia globale di quello specifico gruppo. L’insegnante ha bisogno di sentire il proprio ruolo con chiarezza e di contare sulla propria autorevolezza, rapportandosi prima di tutto ad ogni singolo alunno nella costruzione di un gruppo che sappia accogliere chi arriva evitando di trasformare la sua novità in una differenza inavvicinabile (come può capitare per bambini e ragazzi che appaiono “troppo differenti” da quel che abitualmente si conosce).

Essere insieme

Non si costruisce la propria autorevolezza da soli. E’ la scuola come istituzione, come rete di colleghi che valorizza i propri insegnanti ed è questo il contesto da cui attingere per sentire e comprendere chi si è in classe. Le necessità di un insegnante devono trovare ascolto e risposta da parte dei colleghi e della dirigenza. Non sono gli alunni a dover farsi carico dei bisogni di chi sta dall’altra parte soprattutto quando si tratta di alunni con particolari necessità (basti pensare agli alunni che sono affiancati da un insegnante di sostegno ed hanno decisamente bisogno che ci sia una buona intesa tra tutti gli insegnanti della loro classe).

Nella quotidianità possono emergere molti momenti critici, in ogni situazione è necessario prima di tutto comprendere con sufficiente chiarezza quali siano i propri bisogni e porsi delle domande sincere (Sto bene in questa classe? Mi diverto con in miei alunni? Li sento con me? Ci sono ragazzi che mi mettono in difficoltà? Ci sono famiglie che non mi piacciono? Ho problemi con un/una collega?).

Le risorse per affrontare i contesti sono nella “rete” che si può sviluppare con in colleghi, con la dirigenza, con le famiglie, con i servizi territoriali.

  • Ci si può riunire periodicamente per condividere (tra colleghi) quanto accade in classe, i momenti di successo, le strategie efficaci? Ossia, può la dirigenza mettere a disposizione un tempo-spazio comune per conforntarsi assieme su prassi concrete e realizzabili?
  • Nei contesti più complessi è possibile prevedere incontri regolari con le famiglie (o con i punti di riferimento adulti nel caso di ragazzi e ragazze che vivono nelle comunità) per fare il punto sui progressi e le criticità?
  • E’ chiara la rete fuori della scuola (servizi territoriali, interlocutori nelle comunità, ecc.)? Ci si conosce e ci si fida gli uni degli altri?

Stare nel presente e accettare la propria impotenza

La classe vive la sua vita nel presente. Ciò che vi accade, apprendimento, insegnamento, relazioni accade nel suo adesso. La pianificazione è relativa ed ogni progettazione poi si misura con quanto accade in ogni preciso istante. Questa è la risorsa reale della vita in classe ed è quello che può essere usato dagli insegnanti in modo utile per alunni con particolari specificità.

Quando si ha a che fare con alunni cui “mancano” parti di vita (l’adozione, ad esempio, ci mette in contatto esattamente con queste realtà, ossia con il dover avere a che fare con l’assenza di informazioni, di storie, di narrazioni), saper stare nel presente ha davvero un valore di cura.

Si parte dal voler ascoltare quello che le persone raccontano. E’ la loro storia, ha diritto ad essere libera da griglie. I racconti debbono poter esserci quando i bambini sentono di poterli dire, quando vogliono dire, per quello che vogliono dire. Sono racconti che a volte spiazzano e appaiono incoerenti e, a volte, lasciano interdetti. La tentazione di cercare di imbrigliarli in un ipotetico significato tutto adulto può essere tanta (parlare di adozione significa accettare di sentire parlare di perdita ed abbandono e spesso si cercano ipotesi e giustificazioni). In realtà l’ascolto costringe ad accettare di essere impotenti.

Anche i comportamenti dei bambini e dei ragazzi a volte ci ricordano la nostra impotenza. Non possiamo prevedere tutto e tutto controllare, non possiamo neanche sempre dominare le nostre reazioni e agire nel migliore dei modi.  Accettare i nostri limiti è il primo passo per poter farli percepire anche a chi abbiamo accanto e quindi, di fatto, renderli reali e tangibili. Accettare di non sapere, di essere per l’appunto impotenti, accresce in realtà la nostra autorevolezza, permette ai ragazzi di sapere che si può stare anche nel “non lo so” e nell’imperfezione provando a non temere l’incognito e l’imprevedibile.  Comunica di essere disposti a vivere tutto questo con loro, accanto a loro.

Per i bambini e bambine convivere con il non sapere è faticoso, è della loro vita che non sanno, è la loro vita ad essere frammentata e interrotta da sconnessioni. Non si può cambiare un passato che è stato e su cui non si è avuto alcun controllo. A volte non si può nemmeno dare un senso o un significato. Non c’è. Sono questi bambini e queste ragazze a dover convivere con tutto questo ed avere accanto qualcuno che tollera il non sapere, il non potere, che convive anche lui o lei con sensazioni difficili da controllare, che testimonia di non essere spaventato, rassicura.

Non avere paura delle storie, significa non cercare di interpretarle. Non avere paura dei comportamente significa avere la potenzialità di contenerli. Non essere spaventati di chi si ha davanti permette di porsi assieme con sincerità, di stare accanto e di limitare.

Essere autorevoli nell’accettare l’impotenza significa riuscire a far vivere (a chi abbiamo accanto e ci guarda) come si sopravviva al senso di inadeguatezza. Bisogna non avere paura dei propri alunni.

  • Conoscere è la prima risorsa: sono davvero state lette le Linee di indirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati e le Linee Guida per il diritto allo studio degli alunni e delle alunne fuori della famiglia di origine ad esempio? Sono a disposizione?
  • Si può fare riferimento su colleghi referenti ?
  • Si può far conto su una documentazione agevole per riflettere sul da farsi?
  • Si può contare sull’attivazione di progetti a sostegno delle classi in caso di necessità?

Credere di poter fare la differenza

La Scuola come istituzione ha dei limiti. Gli insegnanti hanno dei limiti. E così le famiglie e i ragazzi. Non è facile, ad esempio, riuscire a stabilire un rapporto positivo con una famiglia con cui non è possibile dialogare, che è assente, che è troppo difensiva. I racconti degli insegnanti testimoniano queste difficoltà e come si trasformino inevitabilmente in difficoltà in classe.

Riconoscere però questi limiti, il “non avercela fatta”, l’essersi scontrati con muri e fallimenti porta con se la possibilità di ricordare ogni possibile aspetto positivo che è accaduto e quella positività resta. Gli insegnanti segnano la vita dei propri alunni e gli alunni ricordano a lungo (per sempre?) nel bene e nel male. Ricordano però anche il bene. Il bene resta. Di questo bisogna essere consapevoli. Sapere che si incide davvero positivamente sulla vite di bambini e ragazzi rende responsabili di quello che si fa. Permette di pensarsi positivamente accanto agli alunni e non immaginare le classi come palcoscenico di fallimento ma come luoghi di trasformazione.

  • Si ha a disposizione un luogo dove incontrare le famiglie o educatori adeguato e può essere adattato per offrire la possibilità di un incontro che non sia solo episodico e frammentato?
  • Esistono tempi per informare con chiarezza le famiglie e gli adulti di riferimento delle regole e delle risorse della scuola?
  • E’ possibile dire alle famiglie o agli educatori che seguono i ragazzi che la scuola si è documentata? E’ stata fatta formazione?
  • Ci ricordiamo di comunicare alle famiglie e agli adulti di riferimento quanto accade di positivo? Valorizziamo i progressi?

Strumenti utili:

Le Linee di indirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati

Le Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e le alunne fuori della famiglia di origine

In viaggio verso il futuro – a cura di Care Leavers Network

Feriti dentro – L. Bomber

Scuola e adozione – M. Chistolini

Una scuola aperta all’adozione – A. Guerrieri, M. Nobile

Articolo in collaborazione con Anna Guerrieri, apparso su Genitori si diventa

In classe: l’importanza del conoscersi

Articolo con Anna Guerrieri, pubblicato anche su Genitori si diventa >>

Entrare in classe significa entrare in un gruppo vivo e vitale, concretissimo nella sua fisicità. Ha muri che lo circoscrivono, ha finestre da cui guardare fuori, attraverso cui entra sole, pioggia, vento. Bastano le pareti di una classe, la disposizione dei banchi, la loro adeguatezza o inadeguatezza ai bambini e ai ragazzi, a determinare forti sensazioni in chi entra, sono l’orizzonte che accoglie alunni e professori, sono il palcoscenico in cui si vivrà. La classe ha storie, voci. Ha entrate e uscite, ritmi, regole e trasgressioni. Ha passioni e commozioni, drammi improvvisi e gioie. Ha fughe. Ha i suoi ragazzi, i suoi insegnanti, ha ogni persona che la scuola la abita e la vive. La storia della classe è fatta di tutte queste storie insieme. Si snoda giorno per giorno, vive del passato di ognuno, delle famiglie di ognuno, degli eventi di ogni vita, resta nel futuro degli alunni e degli studenti che crescono e ne escono.  Giorno dopo giorno in classe si vive assieme. E la vive anche chi resta a casa, i genitori e i fratelli degli alunni, i famigliari degli insegnanti. In classe si gioca tanto della vita di ogni persona che la abita, attorno alla classe vivono in tanti. I ragazzi e le ragazze, i bambini e le bambine ne sono il battito, gli adulti assistono, interagiscono, sono trascinati dentro.

Il tempo che si passa a scuola va dalla prima infanzia a una lunga adolescenza, è il tempo di una vita e di una trasformazione. Vale la pena occuparsene se davvero si ritiene una cosa “seria” una scuola dove si stia bene, tutti, anche chi ha una storia poco usuale o complessa. Insegnare ad apprendere è il centro di gravità attorno a cui orbita la vita scolastica e non si può ignorare come per poter apprendere si debba poter “essere”, essere ascoltati per poter ascoltare, essere valorizzati per poter dare valore, essere scoperti se si vuole insegnare a scoprire. In classe gli alunni rispondono a domande su di sé, sulle proprie storie, ogni istante. Danno ai compagni e agli insegnanti parti importanti della propria vita, del proprio passato e del proprio presente. Insegnano. Questo è il motivo per cui il tema della comunicazione reciproca è così rilevante, per non ricondurre il benessere della vita a scuola solo alla ripetizione di progetti sempre uguali, troppo uniformati e uniformanti nonostante la loro apparente innovatività, privilegiando la “soluzione” semplice rispetto alla necessità continua di creare una dimensione di scambio non basato sul prevalere di alcuni (le storie positive e di successo) sugli altri (le storie più complesse o critiche). Ogni progetto (dedicato alla narrazione, alla storia personale, alla risoluzione dei conflitti, all’educazione affettiva, alla gestione dei social media, ecc.) avrà senso solo se attuato all’interno di un clima in cui alunni e insegnanti (e quindi anche insegnanti e genitori, figli e genitori) possano parlarsi e ascoltarsi per davvero.

Lavorare con i piccoli gruppi permette di osservare quanto ognuno dei partecipanti si adatti alle esuberanze e le necessità di pochi membri, e viva il gruppo facendosi rappresentare. Nella quasi totalità dei casi le risorse migliori, se non sollecitate, rimangono silenti, rispettando i tempi ed i modi di esprimersi che, chi si propone come leader, stabilisce. Accettare questi silenzi senza intervenire è una perdita importante, è lì che sfuggono le vite di troppi bambini e ragazzi, quelli che sembrano sempre sullo sfondo, evitando di buttarsi in avanti, di esporsi, di rischiare. Perché la classe possa godere della ricchezza della loro esperienza diventa fondamentale integrare queste molteplicità, andando a stimolare chi è in grado di attivarsi e partecipare, mettendoli nelle condizioni di poter parlare di sé, raccontare qualcosa di originale, manifestare, insomma, interesse verso chi solitamente rimane in ascolto. Affinché diventino risorsa l’uno per l’altro è necessario far si che chi si espone sia in contatto con chi si ritrae, affinché le dinamiche di potere non si cristallizzino condannando chi è leader ad essere sempre “davanti” e chi evita sempre “dietro”; in ultima analisi evitando schivamenti e prevaricazioni, evitando il rifiuto di chi viene percepito altro e distante, fuori dal cerchio.

Chi vive nella differenza non sa quanto sarà accolto, né come. Dovrà scoprire il mondo in cui entra e percepire la possibilità di starci. Dovrà testate se la propria differenza (somatica, per storia famigliare, per scelta sessuale, di vita, cognitiva, fisica) sia accettabile o meno, e quanto, sino a che punto accettabile. Scoprire se “davvero” in classe si possa parlare (essere in ultima analisi) fa una differenza enorme, permette di immaginare di poter raccontare qualcosa sapendo che per gli altri “va bene così”, senza dover prevalere o travestirsi da vincente. Non basta un film proiettato in classe, né un libro, né un intero progetto a garantire che si dia spazio vero a chi ha bisogno di sentirsi accettato perché di fatto impossibile insegnare ad altri ciò che non si sperimenta o avvicina almeno un poco. Avere in classe, ad esempio, alunni con storie di adozione, di affido, con storie famigliari segmentate e non basate sulla somiglianza e l’appartenenza fisica, fatte spesso di “non sapere” cosa ci sia nel passato, mette in contatto con quello che si prova sulla perdita, sull’abbandono, sulla capacità di essere genitori e sull’appartenenza.

Provare “vergogna” ad esporsi, impossibilitati nel trovare la propria voce, quella reale, questa è la sensazione narrata a volte da ragazzi e ragazze che si sentono troppo differenti dagli “altri”. Se si pensa a ad un bambino o ragazzo adottato internazionalmente che ha cambiato bruscamente vita, contesto di accudimento, lingua si percepisce come possa (almeno talvolta) sentirsi sovraesposto, la competenza acquisita nel passato può non essere più utilizzabile nel suo presente, anzi può diventare inadeguata. I comportamenti appaiono poco comprensibili agli adulti che lo circondano, sfuggono alle categorie, alle sigle e alle diagnosi proprio perché azioni e reazioni possono essere innescate e determinate da ciò che si è imparato in un prima di cui nessuno è testimone. E’ proprio il non “capirsi” (come anche quando non si comprende la fatica di chi pensa e apprende in modo differente) che può innescare una ghirlanda di problematicità.  Eppure le differenze si potrebbero facilmente trasformare in risorsa proprio perché, mettendo in evidenza un limite e amplificando le incongruenze fra quanto si dichiara e quanto si vive realmente, innescano cambiamenti. In questi contesti diventa un rischio non soffermarsi, non cogliere la complessità delle relazioni umane, riferire il senso delle cose che stanno intorno a se stessi e ai propri bisogni (insegnanti, genitori), pensando di aver ragione, non sapendo mediare, solo alla ricerca di conferme personali. E’ allora, ad esempio, che il sistema entra in scena e prende lo spazio che spetterebbe alle persone. Restano a quel punto solo le sigle e le diagnosi, richieste dalla scuola, temute-inseguite dalle famiglie, percepite in ultima analisi come “difese” per gli adulti, piuttosto che come utili alle persone che ne sono protagoniste.

Spesso si è privi di alfabetizzazione per quanto riguarda la capacità di relazionarsi con l’altro riuscendo veramente a conoscerlo, sapendosi nutrire delle fragilità e vitalità che sono contenute in una relazione. La relazione è un fluttuare continuo, può vivere intensamente attraverso le parole e attraverso i silenzi, anche solo un cenno, un movimento rapido di un sopracciglio può avere un significato profondo se c’è una relazione. Ciò che percepiamo è la realtà, ovvero noi viviamo esclusivamente delle nostre percezioni. A volte sono inquinate dai ricordi del passato dalla percezione di noi stessi, da cosa attribuiamo a chi ci sta intorno indipendentemente da chi è veramente. Le abitudini diventano fondamentali, i ruoli formali ed informali strutturano più rigidamente di quanto riusciamo ad immaginare la realtà che ci circonda, siamo sempre alla ricerca di rassicurazioni, la nostra mente apparentemente flessibile e capace di nuovi adattamenti combatte, più di quanto crediamo, contro ciò che può rappresentare un cambiamento anche positivo. Si giocano ruoli di potere nei gruppi (ed anche nelle classi) che mettono in evidenza la caparbietà assurda perdurare nel non cambiamento, nella non evoluzione.

La scuola è un luogo ove si concentrano una molteplicità di situazioni, tanti ruoli che interagiscono, programmi da portare avanti, verifiche, interrogazioni. Gli strumenti pensati per trasferire sapere, cultura, capacità di pensiero critico, quindi per il bene degli alunni possono trasformarsi anche senza accorgersene in strumenti che perdono il loro senso originario, fini a sé stessi, autoreferenziali, utili all’istituzione e non alla persona e quindi danneggiati e possibilmente danneggianti. Basta pensare a quando il sistema della valutazione possa apparire talvolta troppo determinato da necessità estranee alle persone (“devo fare così perché il registro elettronico me lo impone”), quando non è più funzionale alla crescita della consapevolezza, quando non insegna più, non parla. E’ allora che perde il suo valore così grande, è allora che perde equità umana ed è allora, che nonostante le migliori intenzioni, può urtare e scheggiare, può costringere alla ritirata, a nascondersi, a sparire e rinunciare. Un Piano Didattico Personalizzato pensato con le migliori intenzioni può trasformarsi, fin troppo facilmente, da strumento essenziale ed utile in terreno di guerra e combattimento e non più strumento al servizio dei bambini e dei ragazzi con differente modo di apprendere.

Agli studenti spesso manca il contatto e la sensazione dell’umanità, come agli insegnanti manca la sensazione del confronto, del dialogo ed in ultima analisi del rispetto. Lavorare sulla restituzione dell’umanità significa cercare di restituire ad ogni abitante della classe la percezione che ciò che in essa accade ha un profondo valore prima di tutto per sé stessi. Intervenire diventa come versare da bere ad una persona terribilmente assetata che ha come unico contenitore un bicchiere senza fondo, l’unica cosa è far in modo che usi le sue mani per raccogliere l’acqua e così riprenda contatto con tutto ciò gli viene proposto. Deve essere un contatto reale e concreto con il rispetto, con il proprio valore. La scuola si occupa dell’istruzione di tanti e tanti esseri umani contemporaneamente tutti con diverse storie personali, famigliari, etnia e quanto altro e deve essere supportata con concreta energia. Ogni progetto, valido che possa agire sulla comunicazione del gruppo classe, la condivisione di valori vanno favoriti, facilitati in un processo che non vada dall’esterno all’interno, ma che sia co-costruito a partire da una conoscenza. Chi entra nella scuola per dare il proprio contributo deve conoscerne le regole, essere di supporto alle figure che già vi lavorano. Non si tratta di aspetti accessori, bensì fondamentali pena situazioni di disagio alcune volte eclatanti, altre silenziose e pericolosamente troppo discrete. Umanizzare tutto ciò che è ulteriormente umanizzabile ed anche francamente contenere le dinamiche di protagonismo che finiscono per soffocare menti delicate e desiderose di sentirsi accolte, è necessario e deve venire assieme – forse prima – ad ogni ideazione progettuale sempre utile (apprendimento cooperativo, metodo autobiografico, ecc.).

Ogni dinamica di potere trae le sue origini proprio dalle disattenzioni, dal potersi permettere di non sollecitare e tenere dentro risorse umane importanti.  Se parliamo di ragazzi nessuno si osserva intorno per capire le regole del funzionamento delle relazioni umane più di una persona nel periodo della sua crescita. Per i ragazzi le relazioni umane sono il centro di gravità permanente; sono le relazioni famigliari, con gli insegnanti, con i compagni e gli amici, con il quartiere che contano in modo totale. Sono le relazioni che rendono le canzoni interessanti, o le serie televisive, o le storie Instagram. I ragazzi cercano conferma dai genitori, anche trasgredendo, per capire quanto è importante ciò che dicono e credono realmente. Se colgono incoerenza e noncuranza, incapacità di immedesimarsi nell’altro cosa potranno proporre nelle loro relazioni? Se gli adulti hanno un atteggiamento di noncuranza e falsità cosa possono fare da soli i ragazzi e cosa possono fare anche i professori più dedicati? Portare più “civiltà” nelle nostre classi partendo da una azione di condivisione e partecipazione da parte delle figure adulte è la strada che accompagna necessariamente ogni investimento sulla scuola partendo dal voler conoscere chi si ha davanti, dal voler diventare consapevoli, dal credere sempre di potersi ascoltare.

Strumenti utili:

Le Linee di indirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati 

Le Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e delle alunne fuori della famiglia di origine 

 

Allo Specchio

Anni di vita vissuta e lavoro con le famiglie adottive mi hanno permesso di scrivere in prima persona. In tutta onestà non avrei saputo scriverlo in altro modo. Le sensazioni che mi attraversano e che provo sono quelle che scrivo.

Grazie a tutte le famiglie che mi hanno permesso di capire e condividere

Essere famiglia

Si non ci assomigliamo e allora? Questi sono i miei figli, i figli che ho voluto, ho cercato, aspettato e desiderato ogni giorno. Sono i miei figli e basta. Li guardo nelle fattezze, nella loro bellezza, nella diversità e penso, che famiglia siamo! Non è proprio come l’avrebbe immaginata mio padre o mia madre e sorrido! Mi rendo conto che siamo il presente ed anche il futuro, siamo coloro che rappresentano il mondo nel suo continuo mutamento. Penso a chi ci guarda per strada, so perfettamente che cosa guardano, però ogni respiro, ogni attimo che passa mi accorgo che non posso più a mia volta guardarli, non possiamo più soffermarci a notare gli sguardi curiosi, non possiamo più permettercelo. Non potremo mai controllare il pensiero di chi ci sta intorno, e se devo dire la verità non mi interessa. Non voglio più sapere cosa pensa chi non è attento alla vita, a quella vera.

Con loro

Quanto vivo ogni giorno aiuta a connettermi con ciò che ho bisogno di conoscere meglio, la vita dei miei figli, la complessità dei loro pensieri, la loro fragilità di quando erano neonati, che non ho conosciuto che riesco comunque a sentire. Voglio stare accanto a loro, anche mettendomi un po’ da parte se necessario, non potrò e non vorrò mai  perdere il contatto.

Siamo una famiglia diversa, ma diversa da chi, da che cosa? C’è una famiglia che potrebbe considerarsi più famiglia di noi? Se lo si dovesse pensare, avrei bisogno di sapere perché? Ho tanta tenerezza dentro di me che vorrei darne un po’ a chi non vede che se stesso riflesso. Io posso essere la sua immagine, un’immagine che non ripete fedelmente i suoi movimenti, ma può farne scoprire di nuovi e mostrare quanto più plastici possiamo essere noi genitori di figli che abbiamo adottato. Quante volte, un genitore biologico ha pensato, ha fatto congetture, e poi ci  ha guardato meglio e si è reso conto che non c’era nulla di diverso, ora siamo amici e ci arricchiamo reciprocamente delle nostre esperienze.

I complimenti

Quante volte ci hanno osservato e senza capire hanno parlato bene di noi, troppo bene, differenziando, rinunciando, così, ad avere un vero rapporto. Fa male essere guardati a distanza, essere pensati, essere oggetto di congetture, ipotesi varie. Fa male perché così si è persa un’occasione per entrambi di stringere amicizia, di mostrarci le fragilità di essere genitori in un percorso con figli che crescono e mutano continuamente. Vedi noi abbiamo delle diversità strutturali da voi, abbiamo una storia prima ed una storia attuale che deve includere entrambe. Siamo diversi perché le storie fra noi ed i nostri figli sono state separate per un certo tempo, ed anche se, in alcuni casi, si è trattato di giorni, c’è stata la presenza di altri genitori, della mamma, nostro figlio era stato generato prima che si generasse il nostro incontro con lui. Non è una cosa che si dimentica, non si può.

Ti spiego perché

Puoi immaginare, amico genitore, quanto sarebbe importante per me sapere che non pensi nulla di speciale, che ascolti soltanto, che l’unica cosa che ti interessa è conoscerci. Siamo, come tutte, una famiglia composta da individui, uno diverso dall’altro, puoi avere un rapporto con ognuno di noi e con tutti noi insieme, ti abituerai a vedere differenze che uniscono. Mi piacerebbe raccontarti la nostra storia, quella che ci accomuna e anch’io vorrei sapere la vostra. Forse io ho più bisogno di te di raccontarla. Il bisogno nasce forse dal fatto che i miei figli si troveranno a spiegare una, dieci, cento volte la loro storia e a volte a loro non andrà proprio di condividere cose private, eppure lo dovranno fare, perché sono sicuro che qualcuno sempre chiederà. Si dovranno rapportare con i loro paesi di nascita o con le loro origini non a molti chilometri da dove vivono oggi. Pertanto ho bisogno di sapere se mi sei amico, se puoi comprendere la nostra storia e, sono sincero, se tu comprenderai mi sentirò più al sicuro. Ho bisogno che i miei figli sappiano che hanno ed avranno in te e magari nei tuoi figli un punto di riferimento come i tuoi figli lo avranno in noi. Mi piacerebbe pensare che se mia figlia o mio figlio hanno bisogno di una persona amica a cui parlare della propria storia in modo diverso da come lo fanno con me troveranno dei coetanei disposti ad ascoltarli con rispetto.

Inclusione

Vorrei pensare che per i miei figli entrare a far parte della nostra famiglia, della nostra coppia, sia stato anche entrare a far parte di una società dove si vive bene, si è accolti, pensati, cercati, per come si è. Se posso credere in questo allora noi genitori ancor di più ce la metteremo tutta per indicare la strada, per essere un modello da seguire. Accoglieremo, sentendoci accolti, le difficoltà dei nostri figli con maggiore forza e determinazione per aiutarli ad un futuro migliore. Faremo conto sul genitore del compagno di classe, sugli insegnanti, su una conoscenza maggiormente diffusa dell’adozione e sulla possibilità di elaborare un abbandono per un bambino. Spesso non bastano le nostre rassicurazioni, è vero che siamo genitori, però è capitato e capita che siamo anche noi persone nuove, già va a scuola e sta ancora conoscendo le abitudini della sua nuova vita. E’ scioccato dal nostro potere su di lui, lo abbiamo portato con noi, sradicato dalla sua terra nativa e dalle sue abitudini. E’ entrato nella nostra vita molto di più di quanto noi siamo entrati nella sua. Io non voglio dire che i figli adottati sono speciali, però come si fa a pensare che non lo siano.

Il dono alla famiglia della scuola

Quando un insegnante, si abbassa per guardare negli occhi nostro figlio, quando lo guardanon per osservarlo, ma piuttosto per farsi guardare, per sentirlo con tutti i suoi sensi e a sua volta farsi sentire, respirare, per noi quell’insegnante rappresenta l’intero pianeta che parla la sua voce più dolce. Quando gli insegnanti e i genitori dei suoi compagni non si spaventano perché nostro figlio è irruento, (a volte lo è solo perché ha compreso la metà delle parole che si dicono in classe), noi prendiamo coraggio. Ci permette di collaborare ad un efficace piano di inclusione di nostro figlio e degli altri bambini che ne hanno bisogno. Se c’è una cosa che un genitore adottivo sa è che ha bisogno di confronto, di aiuto, condivisione. Ciò che avrebbero bisogno tutti i genitori del resto.

L’Ascolto

Quindi ben vengano proposte che partano dall’ascolto e non dal come dovrebbe essere. E’ proprio quest’ultima frase che spaventa noi genitori adottivi, forse l’avevamo anche noi in testa, il come sarebbe dovuto essere, poi abbiamo conosciuto loro, i nostri figli in carne ed ossa e la nostra mente, ancor prima di incontrali si è dovuta adeguare, ha dovuto accogliere altre informazioni, altri elementi a cui non si era mai pensato e cui era necessario far assolutamente riferimento. Si è profilato dinnanzi un orizzonte più ampio. Abbiamo da subito capito che è necessario, capire osservare, farsi passare dentro quanto succede ai nostri figli, distaccarsene quel tanto che basta per vederli meglio con l’unico scopo di entrare in sintonia e fare l’unica cosa di cui hanno bisogno accoglierli ed amarli nel rispetto reciproco.

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